E' un paese per vecchi

Nunzia Penelope

C'è qualcosa di surreale nella periodicità carsica con cui, nel paese piu' vecchio d'Europa, riaffiora il tema del ricambio generazionale. Lo riportano oggi alla superficie le vicende del Pd, dove – stando alle cronache – sarebbe in atto uno scontro tra generazioni. Andando in profondità si scopre tuttavia che lo scontro, al massimo, è all'interno di una stessa generazione, quella che va dal 1945 al 1965.

    C'è qualcosa di surreale nella periodicità carsica con cui, nel paese piu' vecchio d'Europa, riaffiora il tema del ricambio generazionale. Lo riportano oggi alla superficie le vicende del Pd, dove – stando alle cronache – sarebbe in atto uno scontro tra generazioni. Andando in profondità si scopre tuttavia che lo scontro, al massimo, è all'interno di una stessa generazione, quella che va dal 1945 al 1965. Con effetti paradossali: il cinquantenne Dario Franceschini è ritenuto troppo anziano da una platea di quarantenni che preferirebbero come leader il sessantenne Sergio Chiamparino; mentre la stella nascente, simbolo di giovinezza, è Debora Serracchiani, 38 anni, che probabilmente usa già da tempo un buon antirughe.
    Resta sullo sfondo il dato di fatto principale, e cioè che il potere vero, nel nostro paese, è ancora detenuto dai nati attorno al 1930. Anno più, anno meno. Lo abbiamo constatato alle scorse elezioni politiche, dove l'inno alla giovinezza di Walter Veltroni è stato sconfitto a mani basse dal settantenne Silvio Berlusconi. Ma il problema è antico. Emblematico un episodio che risale alle politiche del 2006, quando Roberto Giachetti, quarantenne deputato della Margherita, decide di inserire in lista giovani veri. Ne seleziona quattro. Non se ne parla, gli rispondono i vertici, sono troppi. Ok, basterà uno. Segue una nuova telefonata: Roberto, non c'è spazio, o tu o lui. Giachetti si sacrifica: “Mi ritiro io, lasciate il posto a Davide”. A liste ormai chiuse terza e definitiva telefonata: “Mi dispiace, la candidatura del ragazzo non reggeva. L'abbiamo eliminata''. Fuori tutti e due, il giovane Davide e il meno giovane Giachetti.

    Come stupirsi, dunque, che l'Italia sia in mano agli anziani
    , che la generazione più rappresentata nei luoghi di potere, in qualsiasi settore, resti quella nata negli anni Trenta e, in qualche caso, addirittura negli anni Venti? Al fenomeno non è stata ancora data una spiegazione univoca. In realtà ce ne sarebbero parecchie: chi è sconfitto tende a non uscire mai di scena, ma si ricicla, con il risultato  che si sovrappongono generazioni a generazioni; la cultura delle regole è stata sostituita da quella delle relazioni, e chi è più anziano ne ha ovviamente di più; l'età media si allunga, si invecchia bene, in salute. E perché mai dunque un settantenne o un ottantenne in gamba, dotato di esperienza e di una fitta rete di relazioni, dovrebbe ritirarsi a vita privata? La risposta corretta sarebbe la seguente: “Perché da sotto lo spingono, fino a scalzarlo, le nuove generazioni: preparate, agguerrite e fermamente intenzionate a conquistare a loro volta il potere”. Ma non è così. La generazione che dovrebbe – o meglio, che già da tempo avrebbe dovuto – sostituire i padri e i nonni sembra non avere la forza, o la voglia, o la capacità, di farlo. Ed è esattamente questa la risposta che mi hanno dato molti esponenti della cosiddetta gerontocrazia all'italiana, quando li ho intervistati per un libro sul ricambio generazionale: “Vecchi e Potenti: perché l'Italia è in mano ai settantenni''. Politici, ma anche banchieri, imprenditori, manager. A tutti ho chiesto per quale motivo fossero ancora in sella. Ho ricevuto risposte cortesi e talvolta divertite, ma anche assolutamente spietate: tutti hanno ribaltato sui giovani la responsabilità di non essere sufficientemente determinati nell'ascesa al potere, di averne un'idea astratta, di concepirlo come “dono” che le generazioni precedenti avrebbero dovuto, generosamente, elargire. Come il motorino a Natale. Lo dice chiaramente  Franco Marini, classe 1933: “Nelle nuove generazioni manca il coraggio di proporsi, di affrontare confronti nei gruppi dirigenti. Noi non ci siamo tirati indietro su nessuna battaglia, ci siamo sempre schierati, rischiando. Non siamo restati alla finestra in attesa della cooptazione. A volte si vinceva, a volte si perdeva. Ma era così che ci si formava e che si conquistava spazio''.  Oggi Marini è uno dei punti di riferimento del Pd, guarda con diffidenza al ricambio e avverte: “Ok, largo ai giovani. Ma i vecchietti li vogliamo uccidere?''. Certo che no. Perché se è facile indignarsi per come i supervecchi italiani si dimostrano coriacei quando c'è da lasciare il posto ai giovani, va anche riconosciuto che quando il sistema di potere basato sui vecchi si incrina ne deriva uno scombussolamento generale. E trovare un nuovo equilibrio è molto difficile. Lo ha dimostrato il travaglio della Fiat dopo la morte dei fratelli Agnelli, salvata dall'arrivo di Sergio Marchionne, certo, ma anche dal ritorno al comando dell'ultraottantenne Gianluigi Gabetti. Quando gli ho chiesto per quale motivo avessero richiamato proprio lui, ormai in pensione, la risposta di Gabetti è stata semplice e agghiacciante: “Perché non c'era  nessun altro''.
    Un tempo le cose andavano diversamente. Gli anziani di potere crescevano sotto di sé giovani di potere e, con coraggio, li chiamavano a condividerlo: Ciriaco De Mita, che affida l'Iri al quarantenne Romano Prodi; Gianni Agnelli, che pone il Corriere della Sera nelle mani del poco più che quarantenne Paolo Mieli; Giuliano Amato, che in una notte d'agosto del 1992 chiama il quarantenne Franco Bernabè e lo mette a capo dell'Eni squassato da Tangentopoli. Mi ha spiegato Bernabè: “Al posto di Amato, non so se mi sarei preso il rischio di affidare una impresa così colossale a un giovane come ero io all'epoca. Ce l'ho fatta, ma forse sono stato solo fortunato. O forse ce l'ho fatta proprio perché ero giovane e non avevo nulla da perderè'. Conferma Matteo Arpe, classe 1965: “Mi chiamarono ai vertici di Capitalia perché, probabilmente, ero il solo abbastanza giovane a spericolato da accettare una simile impresa''.
    Oggi il problema non si pone. Nessuno corre più rischi del genere e giovani cui passare il testimone ce ne sono sempre meno. La Telecom è stata per la seconda volta affidata a Franco Bernabè, ormai sessantenne. Al Corriere della Sera nel 2004 è tornato Paolo Mieli, sostituito poi nelle ultime settimane da Ferruccio de Bortoli, che a sua volta lo aveva sostituito molti anni addietro. I manager invecchiano sulle loro poltrone, gli imprenditori stentano nella successione in azienda. Le grandi operazioni della finanza vengono ideate, e condotte, da banchieri over settanta. Quando (raramente) sulla scena economica si affaccia qualcuno “giovane e  nuovo'', capita che si tratti di figure alla Gianpiero Fiorani, alla Stefano Ricucci: non esattamente un modello di nuova classe dirigente. E analizzando le ragioni della crisi finanziaria mondiale, non è difficile individuare in una generazione di spericolati bankers quarantenni i principali colpevoli del disastro, compiuto in nome di una ricchezza immediata e quasi inconcepibile nella sua enormità.

    Sta di fatto che oggi, in Italia,
    si accavallano tre generazioni al comando. Gli ottantenni, molto simili anche quando sono apparentemente lontanissimi, legati da una solidarietà che deriva dall'aver vissuto le stesse  vicende: Alfredo Reichlin e Gianluigi Gabetti, nati nel 1924, entrambi attivi nella Resistenza, hanno poi preso strade diverse: il primo tra i leader del Partito comunista italiano, l'altro mente finanziaria del grande capitale. Ma in comune hanno l'essere cresciuti in un mondo che è crollato sulle loro teste quando erano poco più che ragazzi,  passando attraverso una temperie che li ha resi solidissimi. Dopo la guerra si sono rimboccati le maniche e hanno iniziato a ricostruire. Reichlin definisce la propria generazione quella dei “ricostruttori''; Gabetti me ne ha descritto la potenza parlandomi della “rabbia del fare” che ha caratterizzato tutti i suoi coetanei e che oggi si è smarrita chissà dove.
    Dietro sono arrivati i settantenni. La vera classe dirigente. Nati negli anni Trenta, hanno iniziato la carriera nel momento magico del boom. E a questa generazione appartengono i più tosti fra gli industriali e, soprattutto i banchieri: da Giovanni Bazoli a Cesare Geronzi, entrambi classe 1933, ma anche politici come Franco Marini, Romano Prodi, Silvio Berlusconi e molti altri.
    I sessantenni e i cinquantenni sono invece i figli del Sessantotto. Il momento cruciale in cui “l'ordine costituito è volato in pezzi'', come ha efficacemente riassunto Gabetti. E' la generazione che oggi, secondo Massimo Cacciari, “ha fallito e deve cedere il passo. E' una generazione a cui anche io appartengo (con qualche anno di meno, ma non abbastanza per chiamarmi fuori); se abbiamo fallito non so dire, certo siamo in qualche modo una generazione incompiuta; abbiamo avuto quasi tutto a portata di mano, ma non siamo mai andati davvero fino in fondo. Pietro Modiano, ex sessantottino, oggi banchiere, ha scolpito questo epitaffio: “Siamo stati una leva coraggiosissima. Seri, preparati, rigorosi, volevamo conquistare ogni cosa senza piegarci alla cooptazione. Ma questo oggi è il problema in Italia: si cresce solo per cooptazione, c'è sempre uno più vecchio di te che di chiama in alto, o ti respinge giù. L'occasione perduta è stata negli anni Novanta: lavoravamo per una società aperta, eravamo giovani davvero, non come oggi che siamo tutti finti giovani. Volevamo vincere, come nel '68. Invece ci siamo lasciati cooptare ed hanno vinto le oligarchie''.

    Parecchi anni fa, all'inizio dei Novanta, Gianni Agnelli, con uno dei suoi paradossi, propose di ‘‘rottamare i cinquantenni'' (si trattava di risolvere il problema di sovraoccupazione alla Fiat, ancora non si era posto seriamente il problema contrario, e cioè di tenere più a lungo al lavoro i sessantenni). Oggi sembra altrettanto paradossale la richiesta di Cacciari, che tuttavia non è la prima: tre anni fa Luca Josi, ex giovane socialista, lanciò un appello alla classe dirigente perché si impegnasse a lasciare il potere raggiunti i sessant'anni. Molte le firme, poche quelle di chi il potere lo aveva davvero ottenuto; tra queste, Alessandro Profumo, ad Unicredit, classe 1957. Ma i sessanta per Profumo sono ancora lontani, vedremo. Non firmò, invece, Bernabè: “Io il potere me lo sono conquistato a fatica. Se lo conquistino anche loro”. Qualcuno (pochi) decide di lasciare a prescindere, in nome della qualità della vita: Francesco Greco, classe 1951, numero due della Procura di Milano, sostiene che si ritirerà dalla magistratura a sessantaquattro anni. Ne mancano sei, vedremo. Resta il fatto che questa affollatissima classe d'età comprende oggi una intera classe dirigente che ancora non ha compiuto la sua parabola per intero: da Massimo D'Alema a Luca di Montezemolo, tanto per riassumerne i due estremi. Schiacciati a lungo dai “vecchi'' e ora pressati dai “giovani”, chiedere loro di uscire di scena è, forse, ingeneroso; ma soprattutto, dietro i cinquanta-sessantenni non sembra esserci quasi nulla. Mi ha detto Dario Franceschini: “La missione della mia generazione è sgombrare il campo dalle macerie e chiudere definitivamente la transizione. Dopo, i protagonisti della politica italiana saranno altri. Chi? Quelli che ancora non si vedono, ma che possono esserci''. Vago, ma non del tutto campato in aria. Basta farsi un giro nelle liste dell'Anci, tra i giovani amministratori locali, dove gli under 35 sono ben 27.500, nascosti per lo più nei piccoli comuni. Seri, entusiasti, preparati, trasversali, le parole “identità”, “ideologia”, per loro hanno poco senso. Ragazzi e ragazze che fanno politica da tempo, sul territorio; ma a parlare con loro si fatica perfino a capire a quale partito appartengano. Sono amici più che rivali, uniti da una solidarietà generazionale che spesso supera la divisione politica. Se solo qualcuno decidesse di dar loro una chance, forse si potrà risolvere il problema. Ma ci vorranno anni. Per ora, quindi, teniamoci i cinquanta-sessantenni.

    Nunzia Penelope, collaboratrice del Foglio, è autrice del saggio “Vecchi e potenti. Politica, istituzioni, banche, imprese: perché l'Italia è in mano ai settantenni” edito da Baldini Castoldi Dalai