L'opera struggente di una formidabile Cenerentola

Maurizio Crippa

Le favole a rovescio iniziano dalla fine. L'“instant cyberfable” di Susan Boyle la facciamo cominciare da un letto d'ospedale, subito dopo la finale persa. Una finale che la stoltezza del mondo considera persa, ma che nella saggezza delle favole persa non sarebbe, è arrivata seconda e ha trionfato nei cuori.

Guarda e ascolta Susan Boyle che canta "I dreamed a dream"

    Le favole a rovescio iniziano dalla fine. L'“instant cyberfable” di Susan Boyle la facciamo cominciare da un letto d'ospedale, subito dopo la finale persa. Una finale che la stoltezza del mondo considera persa, ma che nella saggezza delle favole persa non sarebbe, è arrivata seconda e ha trionfato nei cuori. Ma forse lei stessa s'è sentita in dovere di pensarla così, come la pensa tutto il resto del mondo. Ho perso, avrà detto al suo gatto Pebbles o al suo coniglio invisibile, e si è ritrovata in un' ambulanza diretta a nord di Londra, in un letto della clinica Priory. Ricovero d'urgenza e quasi coatto per un crollo da stress, “esausta ed emozionalmente stremata”, un “comportamento strano”. Come refertato da Scotland Yard. Esaurimento. O forse semplicemente il crollo delle aspettative, dopo aver sognato il suo sogno per cinquanta giorni, da quando era salita sul palco nell' ultima selezione “Britain's got Talent”, il giorno 11 aprile, offrendosi come una vittima sacrificale agli sfottò del pubblico, al ghigno dei professionisti dello show e dei giudici: ma chi sei, ma come ti sei vestita, ma quanti anni hai? “Ne ho 48”. Risate come per dire: e che ci fai (ancora) nel nostro mondo? Che aspettativa di vita felice pensi di poter avere ancora, messa come sei?

    Poi Susan Boyle ha cantato. “I dreamed a dream”, il musical dei “Miserabili”, quasi un manifesto di poetica. Si sono alzati in piedi, avevano i lucciconi agli occhi. Tutti. E poiché una notizia un po' originale non ha bisogno di alcun giornale, la “cyberfable” è su YouTube in un istante, in poche ore sono uno, due, cinque milioni di clic in due giorni. Quasi venticinque milioni solo per il video della sua prima esibizione al “Britain's got Talent”. Cento, duecento milioni in un mese mettendo insieme i totali. Ogni contatto una commozione, un “post” lasciato, una lacrima sul viso. Occhi anonimi e famosi, Demi Moore che piange su Twitter, Kylie Minogue che spende per lei i suoi complimenti. E poi le promesse di contratti come una pioggia di stelle, dalla Sony Music in giù, e i canali tv che se la contendono, in patria come in Australia. E in America: dal “CBS's Early Show” a “Good Morning America” al “Larry King Live” della CNN, fino al collegamento via satellite con “The Oprah Winfrey Show”, che è come dire essere finalmente invitata al ballo della Regina, ed entrarci con la carrozza e lo strascico di diamanti. C'è persino un'intera pagina sul Washington Post, c'è persino un invito di Michelle Obama per cantare il 4 luglio alla Casa Bianca, se soltanto si sentirà meglio.

    Una favola, di quelle che sembrano fatte apposta per far sentire tutti più buoni, peccato che non fosse Natale. Per farci credere nella forza della democrazia, nella possibilità che non è negata mai a nessuno. Peccato che poi sia invece la forza del televoto, e non quella del destino, a decidere. Così alla fine ha vinto un gruppo di ballerini che si chiamano “Diversity”, roba da street dance, per chi gli piace. Ma le miriadi di e-mail e di messaggi che sono piovuti come una polvere di stelle sopra Susan Boyle e il suo talent-show raccontano tutti la stessa storia, donne e uomini che si sentono uguali a lei, brutti e perdenti all'apparenza, in realtà diamanti grezzi ancora da scoprire, nascosti nelle profondità insondabili dell'io, vittime provvisorie di uno di quei giochi che fa la vita. Cinderella, o meglio ancora il Brutto Anatroccolo. Ma poi, siccome questo nostro mondo alle favole non crede cinicamente più, né ai lieti fini, che hanno pur sempre qualche lontano debito da saldare con la metafisica, con la resurrezione, ecco che la fiaba finisce male. E agli osservatori più smaliziati la storia di Susan Boyle può infine sembrare soltanto un apologo mediatico, la cyber-fiaba appunto: i quindici megabyte di celebrità che hanno sostituito ormai, come unità di misura del diritto alla felicità, i quindici minuti warholiani.

    O dicono che Susan è come Jade Goody, la ragazza inglese divenuta famosa per il “Grande Fratello” e che poi aveva trasformato la sua malattia, e la sua morte, in un grande compianto telematico, l'infinito sentimento di una morte in diretta, accompagnata e pianta da milioni di spettatori. Jade Goody è esistita perché la televisione esiste, hanno detto di lei. Così pure Susan, dicono ora, è apparsa come una cometa finché lo show non ha spento le luci. E invece no. Non è così. Fosse solo per questo, per la favola consolatoria e l'apologo mediatico, non gli dedicheremmo il nostro affetto. Né Cincerella né Brutto Anatroccolo, Susan Boyle forse sta a significare qualcosa di più, di meno consolatorio e di più disturbante, a volerlo guardare e accettare. Di meno consumabile in pugno di byte. E stata l'apparizione della donna brutta, la sfigata, la zitella. La mai baciata, come ha confessato lei in un'intervista, che mai ha conosciuto un uomo.

    Anatema sit, nella nostra cultura nella nostra società, per la nostra immagine del corpo, del piacere, del sesso. Lo scandalo di cui si era pronti a ridere del suo essere illibata, mio Dio, una che probabilmente non ha mai nemmeno letto un articolo sul sesso tantrico in qualche tabloid per aspiranti starlette. E invece ha qualcosa che commuove, diventa famosa, ce la fa. Da anatroccolo a cigno. Finalmente è diventata una di noi. La verità è un'altra. Che la sua favola ha commosso e stupito perché bella era la sua vita anche prima. Normale, diversa, dura. Ma non forse così malaccio, se poi ha imparato a cantare così. Se poi è spontanea così. Una vita forse non da buttare anche a casa su in Scozia, disoccupata, da sola nella “council house” con il suo gatto Pebbles, povera e assistita dal social housing destinato alla working class. Lasciata sola, col gatto e i chili di troppo, da una madre amata e curata per anni fino alla fine, accudita fino alla morte naturale. Quei chili di troppo che invece non c'erano, ed erano venticinque anni di meno, quando cantò “I Don't Know How to Love Him”, una canzone di “Jesus Christ Superstar” e “The way we were” alla festa per le nozze d'oro dei suoi genitori, nel 1984. Anche di questo c'è il video su YouTube, l'audio fa schifo ma lei invece è quasi bellissima. Perché la sua è una vita normale e non male, nel suo essere fuori dal canone di quel che la gaia scienza televisiva, la dura legge del reality show ritiene normale, belle. Obbligato.

    E' una vita in cui il talento sublime di una voce si misura nei cori in parrocchia a Blackburn, West Lothian, lassù in Scozia dov'è nata e vive. Una vita fatta anche dell'Acting School frequentata a Edimburgo, e di qualche partecipazione all'Edinburgh Fringe, quando ancora c'era il tempo e aveva senso scommettere su un futuro d'artista. E l'orgoglio di un cd inciso per beneficenza nel 1999, quando ormai il desiderio di “poter cantare come professione” era confinato nel mondo dei sogni, ma la voglia di “cantare per far felice la gente” invece no. La sua vita normale, con la sua bella dose di duro e di fatica, la vita normalmente incredibile, guardata con commiserazione o sospetto, di una “scottish catholic churchgoer” che aveva un padre minatore e veterano di guerra e cantore, pure lui, nella cappella del vescovo. “Vengo da una famiglia musicale – dice – lo è sempre stata, cantare è una cosa che ho sempre fatto, ce l'ho nel sangue da quando avevo dodici anni e partecipavo agli spettacoli della scuola”. E una madre anche lei appassionata di canto e di spettacolo che la mise al mondo, settima di nove fratelli, quando ormai aveva 47 anni. E lei per quel parto già fuori tempo massimo aveva avuto pure un sacco di problemi alla nascita, problemi di ossigenazione, tanto che i medici le avevano pronosticato in futuro difficoltà nell'apprendimento.

    Simon Cowell, il suo scopritore e mentore al “Britain's Got Talent”, dice che a fare di lei un personaggio sono quelle sue risposte corte e secche, il marchio di fabbrica del suo “no-nonsense approach to life”. Forse intende, in questo modo, esprimere lo stupore per la sua vita ordinaria che è trascorsa a curare la mamma e a cantare in parrocchia. Ma siccome a differenza delle favole malinconiche la vita è quel che viene incontro e non quello che se ne va, Susan Boyle ha deciso che era il momento per provarci, in quella strana corrida di dilettanti allo sbaraglio e pronti a prendersi anche l'insulto e lo sghignazzo. Lo decise nel 2007, quando sua mamma morì a novantun'anni. “Mi riposai un po' dopo che mamma morì, e vidi ‘Britain's Got Talent' in tv e pensai che avrei voluto andarci”. Anzi dice che sua madre aveva sempre pensato che avrebbe potuto farcela, vincere a uno di questi benedetti concorsi. Ora Simon Cowell spiega che potrebbe incidere un album da scalare le classifiche americane, dice che “the sky is the limit” e che tutti quei milioni di contatti su Internet potrebbero trasformarsi come in una favola in oro zecchino.

    Poi però la fiaba al contrario è tornata all' inizio, a un letto d'ospedale e a una vittoria sfumata. Un sogno di cui resta, per un po', l'alone di affetto. Pure Gordon Brown si è peritato di sapere come sta, lui che probabilmente non sta molto meglio di lei. Pure Vladimir Zhirinovsky gli ha scritto una lettera aperta, dichiarandole l'ammirazione del popolo russo. Susan Margaret Boyle è nata nel 1961, il Primo d'aprile, il più crudele dei mesi. Tutti credono di essersi commossi davanti a lei e alla sua voce perché canta bene, perché la sua sembra la favola di Cenerentola. Niente di meno vero. Ci siamo commossi perché a un certo punto, come una fata buffa, sullo schermo vuoto del talento è apparsa una donna che, misteriosamente, doveva avere avuto una vita piena di talento anche prima. Chissà dove si era nascosta.

    Guarda e ascolta Susan Boyle che canta "I dreamed a dream"

    • Maurizio Crippa
    • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

      E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"