Purché se Magna

Lodovico Festa

Il non acquisto di Opel da parte di Fiat (forse non irreversibile) è un problema per una società che deve raggiungere dimensioni adeguate ai mercati globali. La battuta d'arresto non appanna però la brillantezza dell'operato di Sergio Marchionne che in una fase straordinaria ha sviluppato una formidabile iniziativa internazionale, diventando interlocutore fondamentale del governo americano e incalzando quello tedesco.

    Il non acquisto di Opel da parte di Fiat (forse non irreversibile) è un problema per una società che deve raggiungere dimensioni adeguate ai mercati globali. La battuta d'arresto non appanna però la brillantezza dell'operato di Sergio Marchionne che in una fase straordinaria, invece di coltivare il proprio orticello, ha sviluppato una formidabile iniziativa internazionale, diventando interlocutore fondamentale del governo americano e incalzando quello tedesco. Portando a casa l'acquisizione di Chrysler e definendo un profilo da protagonista per la Fiat che comunque peserà nel futuro. L'occasione della trattativa su Opel è stata utilizzata anche per criticare il governo italiano per non aver fiancheggiato a sufficienza la Fiat aiutandola a convincere i tedeschi. In realtà Marchionne non ha chiesto aiuto a Roma, puntando tutto sull'appoggio di Washington. E l'unica lamentela che rivolge al governo italiano è di non essere intervenuto su Bruxelles per i comportamenti disinvolti di Berlino in difesa degli stabilimenti collocati in Germania.

    Marchionne ha motivi per essere irritato: Angela Merkel si è comportata nella trattativa in modo poco lineare (e in parte se ne sta pentendo). Il piano industriale torinese era più serio di quello di Magna. Al di là del rapporto con i russi, che logicamente ha un suo peso, le prospettive di un'industria europea dell'auto sono più solide con un accordo a tre Chrysler, Fiat e Opel. Quanto alle rimostranze su Bruxelles, pur corrette, non tengono conto dei tempi di crisi, quando un governo come quello di Gordon Brown ne combina di tutti i colori nel settore bancario. Né si può criticare oltre misura per dirigismo Berlino, dopo avere intrattenuto intimi rapporti con la (probabilmente inevitabile) politica iperdirigista di Barack Obama. La posizione più ragionevole sul caso Opel è di Giulio Tremonti che, al di là delle giuste critiche, sfrutta le contraddizioni della Merkel  per rilanciare l'unica operazione europeista oggi possibile, cioè sostenere il varo di eurobond per finanziare nuove infrastrutture. L'atteggiamento di Roma sulla Fiat è stato un atteggiamento tutto sommato corretto, che meriterebbe le lodi di quelle prefiche del liberismo tradito che quando si tratta di Torino diventano però poco loquaci.

    Positiva la politica sulla rottamazione, concessa con sapienza, senza costi laceranti per il bilancio. Positiva la mancanza di subalternità tipiche del passato, con prepensionamenti ad hoc e altri artifizi sulle spalle dei contribuenti italiani. Tra l'altro proprio questo atteggiamento del governo ha consentito a Marchionne di non farsi condizionare dall'ala feudale del Lingotto e di scegliere la via dell'innovazione. E su questa strada ha incontrato di nuovo un esecutivo che non ha frapposto ostacoli al suo intimo rapporto con Washington, che naturalmente in termini di potere creerà conseguenze sullo scenario italiano. Al primo posto sono stati posti occupazione e difesa della “intelligenza collettiva” di Torino, vincendo le tentazioni di comportamenti ispirati dalla ricerca di potere tipo quelli della Spd. Decisivo anche il consolidamento delle banche italiane, anche qui rifiutando tradizionali sotterfugi di potere, che ha consentito a Intesa San Paolo e Unicredit di farsi trovare pronte a spalleggiare la Fiat. E fondamentale anche l'isolamento di una Cgil che se avesse avuto a disposizione i suoi poteri di veto tradizionali avrebbe pasticciato in tutta la vicenda. Oggi il sindacato è sin troppo in difficoltà ma perché sconta i peccati dei vari Epifani e Rinaldini.

    Una riflessione merita la (parziale) resa di Washington, oppressa dai debiti della General Motors, a Berlino, pur accompagnata dalle non casuali controffensive di fondi canadesi. Interessante perché svela le difficoltà dell'Amministrazione Obama: il problema di conciliare la linea del Tesoro per un rapido accordo con Pechino, con quella del Dipartimento di stato (e del Pentagono) prudente sulle implicazioni che accordi frettolosi ora con la Cina ora con l'Iran possono produrre negli equilibri internazionali, irritati dalle mosse autonome di Mosca, e infine con gli ambienti Goldman Sachs così influenti sulla Casa Bianca, preoccupati dalle richieste europee di regolazione dei mercati finanziari. I problemi di una politica estera atlantica appaiono assai più complessi di quelli prospettati dalla visione onirica di Mario Monti sul Corriere della Sera, che tra l'altro scorda il fallimento dei padri dell'Europa a cui lui fa riferimento (da Gerhard Schröder a Jacques Chirac a Romano Prodi).

    In Italia esiste poi, per nostra fortuna, anche un grande partito americano, con ali di destra con i Murdoch, di sinistra con i De Benedetti, più finanziarie con Marchionne e i noti amichetti di Goldman Sachs. Partito in cui certi umori dei più vari ambienti di Washington si riverberano e che al momento osserva con qualche fastidio alcune mosse e alleanze del governo Berlusconi. Con questo variegato “partito” si deve interloquire perché il ruolo italiano è anche di essere ponte con gli Stati Uniti, visto che senza di loro non si dà al mondo alcun punto di riferimento. Ma per una discussione seria, è utile che le varie ali del partito americano non sognino di trasformare i malumori di oggi in destabilizzazioni come nel 1992 e nel 1994, cercando di ripetere quegli anni senza poter contare su adeguate basi sociali e con una Casa Bianca che non riesce bene neanche a convincere Berlino su chi debba comprare la Opel. Sarebbe – come si dice – peggio di un delitto, un errore.