Così Obama ha svelato la sua visione del mondo alla rovescia

Giorgio Israel

Dopo aver letto il discorso del presidente americano Barack Obama sorge la domanda: “E' un discorso sincero?” Barack ha puntato tutto sulle colpe dell'occidente, messe a confronto con la gloriosa storia di tolleranza dell'islam. Su Israele ha usato l'argomento degli avversari (“Voi occidentali avete creato il problema, ora sbrigatevela voi”) e l'ha paragonato a un regime schiavista

    Dopo aver letto il discorso del presidente americano Barack Obama sorge la domanda: “E' un discorso sincero?”. La risposta è: “Sì, è certamente sincero, molto sincero”. Altrimenti non potrebbe spiegarsi la sequela di dichiarazioni partigiane, di castronerie storiche, di gaffe di cui è disseminato. Emerge l'immagine di un uomo che adora l'islam, che non capisce la civiltà occidentale, che ama l'America soltanto nella misura in cui, oggi, decida di recidere le radici che la legano a quella civiltà, che non capisce e non ama Israele (come aveva avvertito lo storico Benny Morris). In definitiva, l'immagine di un relativista multiculturale radicale.

    Obama ha intessuto il suo discorso di un incontinente panegirico della storia gloriosa dell'islam. Ha presentato l'islam come la luce della conoscenza che avrebbe aperto la strada al Rinascimento e all'Illuminismo. Ha riscritto la storia in modo propagandistico dimenticando che – come scrisse Alexandre Koyré – la “fioritura della civiltà arabo-islamica fu di corta durata” e “il mondo arabo, dopo aver trasmesso all'occidente latino l'eredità classica che aveva raccolta, l'ha persa e persino ripudiata”, per “l'influsso di una reazione violenta dell'ortodossia islamica che rimproverava alla filosofia la sua attitudine antireligiosa, e per l'effetto devastatore delle ondate di invasioni barbare, turche, mongole che hanno distrutto la civiltà araba e hanno trasformato l'islam in una religione fanatica e ferocemente ostile alla filosofia”.
    Certo, non si poteva parlare così, perché Obama è un politico e non un professore di storia, ma si poteva evitare di dire cose ridicole: per esempio che l'islam ci ha dato la stampa – quale colossale gaffe nei confronti dei cinesi! – o che ci ha dato la comprensione delle malattie, come se la Scuola salernitana non fosse stata una sintesi di cultura medica greca, latina, araba, ebraica e cristiana e come se la rivoluzione che ci ha dato la medicina scientifica contemporanea (quella che domina negli Stati Uniti!) non fosse stata forgiata nell'Europa dell'Ottocento.

    Questa agiografia incontinente non fa una piega: presenta una storia di cultura, di tolleranza, di rispetto dei diritti umani senza ombre, soltanto turbata oggi dalla minoranza “potente” ma ristretta dei fanatici di al Qaida. Una simile parodia potrebbe essere perdonata in nome dell'opportunità politica se non fosse che il presidente Obama non manifesta passioni neppure lontanamente paragonabili per il resto del mondo e della storia. Egli si dichiara cristiano ma mai rivendica il valore che ha per lui tale appartenenza. L'unico riferimento storico al cristianesimo allude allo spirito di tolleranza dell'islam nella Spagna medioevale “durante l'Inquisizione”, come se le grandi scuole di traduzione dei classici non fossero fiorite sotto i re cristiani. Quanto alla biografia personale, gli unici accenti commossi sono per l'infanzia trascorsa in Indonesia, il ricordo dell'invocazione dell'azaan e della tolleranza con cui erano trattati i cristiani. Tuttavia, esistono storie ben diverse dell'Indonesia, come quella di “Fedeli a oltranza. Un viaggio tra i popoli convertiti all'islam” del premio Nobel V. S. Naipaul in cui si narra di una società brutalmente distrutta dal potere della teocrazia islamica. Sono testimonianze di cui bisognerebbe tenere conto anche se vengono dalla cultura indiana.

    Ma nel discorso di Obama questioni epocali che riguardano il destino del mondo appaiono affidate a un dialogo a due, tra America e islam: scompaiono più di due miliardi di persone tra indiani e cinesi, mezzo miliardo di europei, per non dire del resto. L'interlocutore dell'islam è l'America, non l'occidente. Non una menzione delle radici della civiltà americana: religiosità giudaico-cristiana e Illuminismo, razionalità e democrazia. Tutte cose che vengono dalla civiltà europea e che univano fraternamente gli illuministi francesi e la nascente democrazia americana, quando i salotti parigini accoglievano come un eroe Benjamin Franklin e Thomas Jefferson si formava alla cultura politica degli Idéologues.

    Niente: la cultura europea e la civiltà occidentale non esistono, come se l'America fosse una proles sine matre creata. Anzi, qualche accenno c'è: al colonialismo, al razzismo, alla tratta degli schiavi, insomma soltanto alle colpe dell'occidente, di cui è stato vittima il mondo islamico. Si arriva al punto che i fanatici estremisti di al Qaida con l'attentato alle Torri gemelle avrebbero strumentalizzato i risentimenti creati da queste colpe oltre che dai cambiamenti prodotti dalla modernità che “hanno indotto molti musulmani a considerare l'occidente come ostile alle tradizioni dell'islam”. Sembra di sentir parlare un Al Ghazali moderno.
    L'America no, è un'altra cosa. L'America si spiega in fondo col fatto di aver eletto un presidente dal nome Barack Hussein Obama. Un fatto non isolato, egli spiega, perché questa è l'America di oggi: il paese che ha vinto colonialismo e razzismo e integra perfettamente un mosaico di diversità. Questa retorica multiculturalista non è attraversata dall'ombra di un dubbio circa l'ingestibilità di un modello che rischia di portare alla crisi del tanto vantato melting pot. E' il modello di una società che accetta ogni aspetto delle diversità, che punisce chi non lascia vestire le donne musulmane come vogliono e vuole permettere comportamenti in conflitto con le norme classiche della democrazia occidentale.

    Qui siamo ormai fuori dei paradigmi illuministici della democrazia americana: l'adesione ai principi di libertà, uguaglianza, parità fra uomo e donna, i principi morali diventano un'opzione, una scelta su un piede di parità con altre idee diverse se non opposte. Certo, Obama patrocina il valore universale dei principi dei diritti dell'uomo ma con questo tono: “Credetemi, è meglio. Non ho intenzione di imporvi nulla e anzi rispetto le vostre scelte diverse, ma se fate come dico io sarà meglio per tutti”. Obama vanta le 1.200 moschee esistenti negli Stati Uniti ma non chiede nulla in cambio. Anzi presenta in maniera ridicola come campione di dialogo interreligioso il re di un paese, l'Arabia saudita, in cui il possesso del Vangelo porta in galera. Obama è allievo di quell'Edward Said che, nel suo “Umanesimo e critica democratica”, derideva la cultura umanistica americana classica, innamorata di Platone, Aristotele, Dante e Shakespeare, ed esaltava l'opera di distruzione che l'aveva sostituita con un “umanesimo” multiculturalista.

    Infine, come Edward Said, Obama non ama Israele, e – dopo le dichiarazioni di principio e l'apprezzabile condanna dell'antisemitismo e dei propositi di distruzione – gli riserva due colpi micidiali. Il primo consiste nel giustificare il diritto di Israele ad avere una patria soltanto con le persecuzioni antisemite. E' l'argomento che usano gli avversari di Israele per dire: “Voi occidentali avete creato il problema, ora sbrigatevela voi”. Obama porta acqua al mulino di queste tesi, parlando di “displacement brought by Israel's founding”, come se questo spostamento non fosse stato voluto dagli stati arabi che, rifiutando le risoluzioni delle Nazioni Unite, invitarono gli arabi – allora il termine “palestinesi” era inesistente – ad andarsene per rendere più facile la distruzione della neonata nazione. Barack Obama ha parlato soltanto del diritto dei palestinesi a una “homeland” di cui sono stati privati. Non ha detto una parola di altri diritti, come quello di centinaia di migliaia di ebrei “displaced” in modo feroce da tanti paesi arabi.

    Ma non basta. Incitando i palestinesi ad abbandonare la violenza ha evocato l'esempio dei negri americani che per secoli hanno sopportato la frusta come schiavi e l'umiliazione della segregazione e hanno ottenuto l'emancipazione per via pacifica, nonché l'esempio del Sudafrica, dell'Asia del sud, dell'Europa dell'est e dell'Indonesia. Insomma, Israele è paragonato a un regime schiavistico, a uno stato dell'apartheid, a un regime comunista. Conosciamo bene la matrice di questi confronti. E – secondo uno stereotipo collaudato – mentre rende questo pessimo servizio agli ebrei vivi, il presidente americano si reca a Buchenwald per commemorare gli ebrei morti. Tanto si tratta di deplorare le colpe dell'occidente… Questa è la situazione di fronte a cui ci troviamo: il relativismo multiculturale al potere negli Stati Uniti – un relativismo multiculturale che, come sempre, non è equanime, ma è schierato dall'altra parte, in questo caso quella che sta nel cuore del presidente. Quali processi incompresi o sottovalutati abbiano portato a questo esito è quel che occorrerà capire a fondo.