Inchiesta intorno a un mito/1

Clandestini brava gente

Cristina Giudici

L'immigrazione clandestina è un gioco dell'oca, si ripete all'infinito e inizia laddove molti pensano che invece finisca: sulle coste italiane. O meglio nei centri di identificazione ed espulsione, dove vengono portati i clandestini dopo lo sbarco. O nei centri di accoglienza, dove invece vengono portati quelli che richiedono asilo politico e rifugio umanitario.

    La prima puntata dell'inchiesta scritta da Cristina Giudici sull'esodo degli immigrati clandestini che arrivano ogni giorno in Italia è nata da questa domanda che ci siamo posti una mattina in riunione di redazione: è vero – come detto poche settimane fa prima da Maroni e poi da Berlusconi – che gli sbarchi “non sono fatti occasionali ma il frutto di una organizzazione criminale”? Per verificare se questi flussi criminali esistano davvero, abbiamo inviato la giornalista nel Cie di Caltanissetta e di Crotone. Ne è venuta fuori un'indagine in tre puntate.

    L'immigrazione clandestina è un gioco dell'oca, si ripete all'infinito e inizia laddove molti pensano che invece finisca: sulle coste italiane. O meglio nei centri di identificazione ed espulsione, dove vengono portati i clandestini dopo lo sbarco. O nei centri di accoglienza, dove invece vengono portati quelli che richiedono asilo politico e rifugio umanitario. Solo quando la traversata è finita – quando minori, donne, uomini dai molti nomi e imprecisate località di provenienza, vengono soccorsi o respinti in mare – il loro destino è deciso. Senza altra possibilità che quella di forzarlo e di ripeterlo all'infinito. Lasciando a poliziotti e a questori il difficile compito di governare, di spezzare, di decrittare un fenomeno sommerso e pressoché ignoto. Infinitamente più vasto di quanto possiamo immaginare e quantificare.

    Ecco perché il nostro viaggio è iniziato dal fondo della bottiglia, dove si sente ancora l'odore del mare che gli immigranti hanno appena attraversato. Dal traguardo del loro viaggio, che rappresenta l'inizio del loro tragitto dentro l'Europa. Si parte dagli ex centri di permanenza temporanea, Cpt, creati dal governo Prodi e trasformati dal governo Berlusconi in centri di identificazione ed espulsione, Cie (13 in tutta Italia) con un unico obiettivo: erigere un muro. Un muro che, seppur circondato da inferriate, sorvegliato all'esterno da polizia ed esercito, si trasforma spesso in una rete con maglie molto larghe. Ora che Lampedusa, emblema dell'immigrazione clandestina che arriva dall'Africa, è stata svuotata per ragioni politiche e amministrative, il fondo della bottiglia si trova a Caltanissetta, nel centro “raccolta” più grande della Sicilia, nella contrada Pian del Lago, dove circa 600 immigrati attendono di poter continuare a scrivere il destino che hanno scelto di vivere. Disposti ad affrontare qualche mese di carcere o di privazione momentanea della libertà, che considerano un semplice iter burocratico.

    Ed è qui, nel Cie di Caltanissetta, che 150 operatori della cooperativa Albatros diretta da Camelo La Paglia e Vincenza Vicino, gestiscono l'accoglienza e il transito di migliaia di immigrati grazie a un appalto di 5 milioni di euro ottenuto dal ministero dell'Interno. E, dopo aver visto passare nel loro centro ventimila immigrati, ancora oggi cercano di creare un filtro fra gli “ospiti” e le forze dell'ordine che stanno all'esterno e mantenere il precario equilibrio che mitiga le tensioni, nonostante le guerre interne che ogni tanto scoppiano fra le varie etnie. E sono loro infatti, divisa rossa e il walkie-talkie in mano per segnalare ogni spostamento, ogni apertura di un cancello, che organizzano i pasti, risolvono ogni problema logistico, segnalano le fughe, gestiscono i loro problemi socio-sanitari, cercando di non confondere troppo l'accoglienza umanitaria con la sorveglianza.

    Qui arrivano gli ultimi sbarcati, quasi tutti tunisini e nigeriani, e gli investigatori stanno cercando di capire se sia casuale o meno, perché i flussi non sono mai casuali, soprattutto quando a bordo delle barche ci sono minori non accompagnati e donne nigeriane destinati al racket dell'elemosina, dello spaccio di droga, o alla prostituzione low-cost. Arrivano tutti dalla Libia, dove il colonnello Gheddafi, per mantenere viva l'attenzione economica del nostro governo, ogni tanto dice che, sparsi fra il deserto e le coste della Libia, ci sono un milione di africani pronti a partire per l'Italia e i questori con cui abbiamo parlato non sanno cosa pensare, o meglio preferiscono pensare che così non sia. Vengono tutti, o quasi, dal porto Zuwarah, una cittadina della costa libica, dove l' economia locale è quasi interamente costruita intorno al traffico degli esseri umani. Si chiamano tutti Mohammed, inutile chiedere loro un cognome. E tutti hanno un amico libico che gli ha presentato un altro libico, che li ha reclutati, scelti e messi su una nave. Una volta arrivati al Cie di Caltanissetta, quelli che sono appena sbarcati, si mescolano a quelli che sono entrati in Italia prima di loro e ora sono di nuovo qui, dopo essere stati fermati in strada dai carabinieri o aver scontato una condanna in carcere. E come tutti tornano allo stesso punto di approdo, dove il loro viaggio è cominciato.

    Il primo Mohammed che abbiamo incontrato, accanto al modulo dove è stato trattenuto, un prefabbricato in cui si vive in sei per stanza – fra il campo da calcetto e il piccolo gazebo di plastica che serve per la preghiera verso la Mecca – ci spiega che lavorava al mercato del pesce di Tunisi per 750 dinari al mese e vorrebbe raggiungere la Francia dove vive suo fratello. Dice che ha pagato 2.500 euro, glieli hanno inviati dall'Europa alcuni suoi famigliari, e quando gli chiedo come sia stato possibile racimolare una somma così rilevante lui mi guarda incerto, come fossi la persona più sprovveduta del mondo, e i suoi compagni mi spiegano con ostentata pazienza che la storia è sempre la stessa. E cioè che dietro di loro c'è un clan familiare che vende case, terreni, gioielli, qualsiasi cosa, per permettere a uno della famiglia, il più forte, di raggiungere l'Europa perché lui dopo, anno dopo anno, si trascinerà dietro quelli che sono rimasti a casa, ad aspettare. O almeno questa è la loro speranza, visto che quasi tutti gli ospiti dei Cie italiani sono da soli, fra altri compagni di viaggio o sventura. “Ho pagato 2.500 euro”, ripete Mohammed. Una cifra pur sempre minore rispetto a quella che avrebbe dovuto pagare per chiedere un visto turistico e diventare quello che in gergo si chiama over-stayer. Ossia un immigrato entrato legalmente e poi rimasto illegalmente in Italia. I poliziotti ci hanno spiegato che, per restringere l'accesso degli immigrati dai paesi maghrebini, i consolati chiedono loro una garanzia, una somma sul conto corrente bancario, che può arrivare anche a 5.000 euro. Inoltre, per ottenere un visto turistico, spesso bisogna pagare piccole tangenti alle autorità locali. Un fattore, questo, che rende più difficile un'emigrazione diversa da quella dei barconi che arrivano via mare e facilita invece quella clandestina, anche quando si lascia il proprio paese per sfuggire a guerre ed emergenze umanitarie.

    E' vero, l'esodo degli immigranti che sbarcano sulle nostre coste attraverso il canale di Sicilia rappresenta una cifra relativa – circa 44mila dall'inizio del 2008 su circa 650mila clandestini presenti sul territorio italiano – ma suscita reazioni contrastanti, polemiche spesso esasperate, politiche più restrittive perché la pressione demografica che arriva dall'Africa in Italia è raddoppiata nell'arco di un anno e a molti fa paura. E infatti ogni anno 830mila africani si dirigono verso l'Europa e 120 mila raggiungono le coste meridionali dell'Unione europea. E' vero, l'esodo dei clandestini visto dal deserto del Sahara rende più semplice distinguere i buoni dai cattivi, i trafficanti dalle loro vittime. Sin dai tempi del film di Gianni Amelio, “Lamerica” – con le sequenze degli albanesi che cercavano appunto l'America in Italia, confondendo l'emigrazione con il sogno di una vita migliore – reporter e operatori umanitari hanno provato a ripercorrere le rotte dell'immigrazione clandestina, a disegnare mappe delle organizzazioni criminali che si arricchiscono con il traffico di esseri umani, a denunciare le complicità dei governi locali a testimoniare la disperazione spinge a fare viaggi costosi e dagli esiti incerti. Con sosta obbligata in quelli che un ricercatore dell'Ismu, Marco Lombardi, docente dell'Università Cattolica di Milano, ha definito hub: non-luoghi, dove al posto delle merci ci sono gli esseri umani.

    Davanti ai nostri interrogativi, questori e poliziotti hanno manifestato una rassegnata e sarcastica impotenza: sanno che l'immigrazione clandestina, alimentata dalla disperazione, praticata da molti con scopi criminali, è un cerchio quasi perfetto. Si può tentare di restringere l'imbuto, forse, prima che inizi, ma non si può modificarne la traiettoria che trasforma drammi in melodrammi, tragedie in farse. E infatti il secondo Mohammed che abbiamo incontrato è arrivato – dice – con un gruppo di amici. Parla bene l'italiano perché ha già cercato più volte di entrare in Italia e rimanerci a tutti i costi. “Eravamo bagnati, stanchi, affamati, assetati e abbiamo bussato alla porta dell'abitazione del medico per chiedergli almeno un po' d'acqua, e lui ci ha consigliato di avvisare i carabinieri che invece ci hanno dato un po' di carta e per fare un falò e riscaldarci, prima di identificarci. Siamo andati a farci arrestare perché sapevamo che dovevamo fare così e in questura ho incontrato un carabiniere che avevamo avvistato in mezzo al mare, mentre pescava. Mi ha detto che ci stava aspettando”, ride. “Poi ci hanno rimesso su una barca e ci hanno portato fino a Caltanissetta. Io però sono molto triste perché mancavo dall'Italia da un po' e pensavo che come al solito il questore mi avrebbe dato solo un decreto di espulsione con 5 giorni di tempo per lasciare il vostro paese, così avrei potuto proseguire il viaggio. Invece ora devo stare qui almeno per 60 giorni e poi magari mi rimandano a casa e devo ricominciare tutto da capo. Io non sono un ladro, sono solo un clandestino. Perché mi tengono qui dentro?”, chiede.

    Accanto a lui c'è un altro Mohammed che, dopo una breve opera di convincimento da parte del mediatore, anche lui tunisino, parla ma lo fa a patto che non si pubblichi il suo nome. La richiesta fa sorridere, visto che il suo nome non lo conosce nessuno. In carcere lui ci è stato, sì, ma per avere violato più volte i decreti di espulsione firmati dal questore. Non perché qualcuno abbia mai detto alla polizia che era lui a guidare la barca. La sua verità è piuttosto verosimile. Dopo la fuga dall'Egitto per sottrarsi alle carceri di Mubarak perché era ricercato per traffico di armi, è arrivato in Libia. Lì nel 2003 il proprietario di una barca di 22 metri gli ha offerto un viaggio gratis a patto che lui guidasse la barca e rischiasse la galera senza rivelare i nomi di chi organizzava il traffico dei clandestini. E' stato così che Mohammed ha scoperto il suo destino, da assecondare finché possibile: fare lo scafista. Primo viaggio: 365 persone a bordo, senza bambini né donne “perché ho dei principi”. Tutti sani e salvi a Lampedusa, ventidue di loro vengono espulsi. Compreso Moahammed che così può rifare lo stesso viaggio e continuare a traghettare esseri umani. A pagamento però. Lo ha fatto per cinque volte, ci ha guadagnato 8.000 dollari per ogni viaggio e ha messo da parte 40mila dollari, per sé e la sua famiglia, una moglie e tre bambini rimasti in Egitto: “Chiedi a Maroni di rimandarmi a casa”, ripete più volte. “Nessuno mi denuncia perché so trattare bene le persone che porto in Italia e tutti sanno che io valgo quanto un pilota dell'Alitalia. In fondo qual è la differenza fra me e lui? L'unica differenza è che io rischio la galera e lui no”. Dal suo punto di vista ha ragione, è normale. Normale l'illegalità. Normale il suo progetto criminale. Normale l'immigrazione clandestina, nel cui mare nuotano tutti, buoni e cattivi, criminali per scelta e per necessità, vittime e sfruttatori perché l'unica cosa più simile alla verità è quella che dice lo scafista Mohammed: “Rassegnatevi perché gli sbarchi non finiranno mai, finché ci saranno soldi, i clandestini continueranno ad arrivare”. (1.continua)