Politica e vallette

Lodovico Festa

Carlo Rossella parte dalle vicende politico-scandalistiche in ballo per dire che comunque è difficile provare rimpianti per i tanti politici ipocriti della Prima repubblica. Sarà un paradosso banale, ma alla fine l'ipocrisia continua ad apparirmi un omaggio reso dal vizio alla virtù.

    Carlo Rossella parte dalle vicende politico-scandalistiche in ballo per dire che comunque è difficile provare rimpianti per i tanti politici ipocriti della Prima repubblica. Sarà un paradosso banale, ma alla fine l'ipocrisia continua ad apparirmi un omaggio reso dal vizio alla virtù. E anche per questo motivo provo nostalgia per la Prima repubblica. Molta della poca passione politica che ho ancora viene proprio dalla rabbia per chi ha spento le non poche virtù di quella primorepubblicana: per i Borrelli & Di Pietro, gli Scalfari & Scalfaro, gli Occhetto & D'Alema (e Veltroni). Mi piacerebbe un passato in cui i Mendès France avessero prevalso sui De Gaulle, in cui una democrazia per salvarsi, una guerra coloniale per finire, un grande paese per rilanciarsi non avessero avuto bisogno di generali, parà, di una Costituzione robusta ma affrettata, di una riedizione di nazionalismi non perfettamente adeguati ai tempi con conseguenti guasti ancora ben visibili. Ma, ahimè, come fu indispensabile un eroe della Resistenza nell'impedire alla società d'Oltralpe di sgretolarsi, così lo è anche il superbrianzolo, un po' folle, che prende un paese allo sbando e faticosamente lo tiene insieme.

    Mi piacciono i politici non improvvisati come li vuole Alessandro Campi, non disprezzo i funzionari di partito anche se ho finito per accodarmi all'idea che sarebbe meglio che chi sente il sacro fuoco dell'impegno pubblico sperimentasse prima attività professionali “civili”, ammiro una certa sobrietà nella gestione dello stato. Ma per scrivere cose utili – si sa – è “più conveniente andare dietro alla realtà effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”. Le storie italiana e francese post 1945 sono segnate da sistemi politici fondati sui compromessi necessari per evitare che la guerra civile europea in corso passasse da virtuale a effettiva: come a Budapest, Praga, Atene, Istanbul. Il che ha comportato un tasso minore di legittimazione con conseguenti gravi crisi sociali e generazionali. E ha determinato assetti politico-istituzionali esposti alle crisi internazionali: quando finisce l'impero coloniale crolla la Quarta repubblica, quando termina la Guerra fredda cessa anche il contesto che “proteggeva” le nostre politica ed economia.

    All'inizio degli anni Sessanta, a Parigi il rapporto tra settori dello stato e popolo offrì lo spazio per rispondere alla crisi con una radicale riforma costituzionale che ha reso il sistema più efficiente a prezzo, però, di difetti strutturali: la scarsa separazione tra esecutivo e legislativo ha paradossalmente complicato le decisioni politiche. Meno “discusse” sono sentite come meno legittime. Da qui le evidenti difficoltà a innovare. Il sistema del doppio turno è una sorta di Mattarellum, cioè la furba via per mantenere un certo grado di disgregazione partitica. Mentre è evidente come in una società complessa l'assetto più razionale sia bipartitico (all'anglosassone o alla spagnola) per dare nettezza agli indirizzi della nazione, garantire una opposizione alternativa e limitare il peso delle nomenklature sulla società.

    A Roma la crisi maturata negli anni Novanta ha visto protagonista un establishment (magistratura, grande finanza e impresa, la stampa più influente, vertici dell'intellettualità, nomenklature sindacali) deciso a imporre la sua volontà sul popolo. Nei 17 anni che passano dal '92 sono circa dieci quelli in cui si è cercato di esercitare questo dominio. Nonostante il sostegno internazionale ricevuto (fondamentale nella prima fase dal '92 al '94), siamo oggi di fronte alle macerie di questo tentativo. E' la vitalità della piccola e media impresa innanzi tutto che ha piegato la tradizionale volontà delle nostre élite di governare senza (spesso contro) il popolo. Quella che si è contrapposta è una sorta di mobilitazione di un popolo tendenzialmente senza élite.

    Gli anni berlusconiani, che adesso stanno finalmente producendo anche buona “cultura politica”, sono in questo senso più “apertura” di uno spazio di libertà che “costruzione” di questo spazio. Oggi ci si scandalizza per la cosiddetta “questione sessuale”. Ma non è inutile risalire all'etimologia del termine oggi così abbondantemente usato: “Veline”. Si tratta dell'invenzione del situazionista Antonio Ricci che con la sua tv ha voluto chiarire come la pulsione segaiola nasca piuttosto dalle calze color carne delle gemelle Kessler, che dalle sue scosciate “vallette”, in fondo demistificatrici della sessualità esagerata. In questo senso, in fin dei conti anche le veline berlusconiane in politica sono state utili per evitare la velinizzazione generalizzata dei politici dall'ottima cultura che militano nel centrodestra. Non mi riferisco tanto a intellettuali folkloristici come Paolo Guzzanti quanto a politici seri tipo Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi. Che ci siano problemi complessi nella società italiana che riguardano i ruoli sessuali, la crescente separazione dell'erotismo dall'amore, la crisi della famiglia, il valore della vita e anche il modo delle ragazze di accedere alla mobilità sociale è evidente. Ma i peggiori guasti con cui ci stiamo misurando sono stati prodotti dal '68 più che da tv e prassi berlusconiane.

    I comportamenti del premier certo non risolvono le questioni in ballo ma almeno non le rimuovono come succede con i riti delle nostre élite senza popolo. Adoro una politica che in rare occasioni sappia essere anche eroica, ma nella norma sia professionale, un po' noiosa e ipocrita. Ma a occhio l'unica via che la storia ci offre per arrivarci sono gli scandali berlusconiani. Forse non sufficienti ma necessari.