La teologia del professor Ratzinger fa di B-XVI il Papa più vicino agli ebrei

Giorgio Israel

Esiste un tratto che accomuna Pontefici ed ebrei nelle vedute di certi ambienti: entrambi vengono preferiti quando sono defunti. In occasione della mancata visita di Benedetto XVI all'università La Sapienza il coro di questi ambienti fu: “Giovanni Paolo II non l'avrebbe mai fatto! Lui sì che era tollerante, aperto e difensore di Galileo”. Dimenticavano l'astio che essi stessi avevano riservato al Papa intransigente anticomunista e ostile alla teologia “progressista”.

    Esiste un tratto che accomuna Pontefici ed ebrei nelle vedute di certi ambienti: entrambi vengono preferiti quando sono defunti. In occasione della mancata visita di Benedetto XVI all'università La Sapienza il coro di questi ambienti fu: “Giovanni Paolo II non l'avrebbe mai fatto! Lui sì che era tollerante, aperto e difensore di Galileo”. Dimenticavano l'astio che essi stessi avevano riservato al Papa intransigente anticomunista e ostile alla teologia “progressista”. Né ha senso contrapporre le azioni dell'attuale Papa ai gesti straordinari del precedente, come la visita alla Sinagoga di Roma. Quei gesti hanno avuto un ruolo fondamentale, ma per vincere incomprensioni e intolleranza occorre anche affrontare di petto le questioni dottrinarie e teologiche che ne sono alla base. Non mi stancherò di ripetere che il documento del 2001 “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” (opera precipua del cardinale Ratzinger) è stato un contributo cruciale in tal senso perché ha riletto una serie di passaggi delicati dei Vangeli in modo da eliminarne ogni interpretazione in senso antiebraico.

    Per Ratzinger il rapporto tra cristianesimo ed ebraismo è costitutivo del cristianesimo stesso: “Il congedo dei cristiani dall'Antico Testamento avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo”. Di natura diversa è il rapporto con l'islam con cui non esiste una relazione speciale e s'impone invece la dimensione del dialogo. Ciò era evidente nel discorso di Ratisbona che indicava la sintesi tra spiritualismo ebraico-cristiano e razionalismo ellenico come radice della civiltà europea. Certamente Benedetto XVI è un Papa che crede profondamente nei principi della tradizione e per cui il dialogo non è sincretismo: “Non riluttante e non ambiguo”, l'ha definito ieri. Ciò non poteva non condurre a difficoltà e conflitti. Peraltro ha pochi titoli a muovere rimproveri chi, in altri contesti religiosi, persegue un ripristino dell'ortodossia anche più rigoroso. Dopo l'incidente con l'islam dovuto al discorso di Ratisbona e quello con ambienti ebraici per il ripristino della messa tridentina e della preghiera del Venerdì santo per la salvezza degli ebrei, Benedetto XVI ne ha fronteggiato uno assai grave con le manifestazioni di negazionismo del vescovo lefebvriano Williamson. E' stato un periodo difficile che il Papa da solo ha risolto con dichiarazioni nette contro il negazionismo e con una memorabile lettera in cui ha aperto il suo animo in modo talmente chiaro da spianare la strada a questo viaggio di cui ci vorrà tempo per comprendere le implicazioni e gli effetti.

    La prima impressione superficiale è che esso si svolga in un clima ecumenico, di esaltazione di ciò che unisce le tre religioni al fine di realizzare la convivenza pacifica tra i popoli. A Gerusalemme – ha detto Benedetto XVI – ebrei, cristiani e musulmani sono chiamati “ad assumersi il dovere e a godere del privilegio di dare insieme testimonianza della pacifica coesistenza a lungo desiderata dagli adoratori dell'unico Dio”. Ai musulmani ha offerto una porta aperta al dialogo che è stata apprezzata dai moderati, come il rettore della moschea di Parigi Boubaker. Agli ebrei ha offerto dichiarazioni inequivocabili contro il negazionismo e ha ribadito la relazione speciale che intercorre tra le due fedi indicando la necessità di spazzare via una volta per tutte i detriti dell'antigiudaismo cristiano.

    Dietro ai toni universalistici si vede in filigrana la dottrina di Ratzinger. Appare sempre chiara l'idea della speciale natura dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo. La ricchezza di citazioni dall'Antico Testamento, il riferimento al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe nella preghiera al Muro del pianto, la lettura di due salmi assieme a un rabbino, offrono l'immagine di tale particolarità. Non è mancata la riproposizione dell'idea ratzingeriana che la fede non può essere disgiunta dalla ragione e, in tal senso, ha un ruolo da giocare nella sfera pubblica.
    Con grande finezza intellettuale, è stato il presidente israeliano Peres a mettersi sulla lunghezza d'onda del Papa. Non a caso gli ha rivolto in latino una frase densa di significati: “Ave Benedicti, princeps fidelium”. E ha riproposto il tema del ruolo della religione nella sfera pubblica, affermando: “Tutti noi ebrei, cristiani e musulmani, popoli di fede riconosciamo che la sfida di oggi non è la separazione della religione dallo stato ma la separazione senza compromessi della religione dalla violenza”.

    L'affermazione che la religione non deve più farsi agente di violenza è un tema centrale di questo viaggio. Il Papa ha proscritto tutti gli integralismi e ha condannato in modo trasparente gli attentati suicidi. Aprirà tutto ciò la strada all'esito che “si smuovano i cuori” per camminare “umilmente nel sentiero di giustizia e di compassione” e verso la pace tra israeliani e palestinesi? Purtroppo c'è da dubitarne. Ne sono prova certe accanite manifestazioni di intolleranza come quella del rappresentante musulmano che si è lanciato in una violenta arringa contro Israele nel corso della visita all'Auditorium del Jerusalem Center o le espressioni tutt'altro che accomodanti del Mufti di Gerusalemme. Desideri e realtà appaiono ancora muoversi su sentieri molto lontani.