Via col Veneto

Cristina Giudici

L'era glaciale non è ancora arrivata. Almeno non nel Nord-est. L'era glaciale, o più precisamente la gelata delle aziende venete prevista alla fine del 2008 da Giuseppe Turani nell'inserto economico di Repubblica – Affari & Finanza – che avrebbe aperto una “stagione-incubo” a gennaio e febbraio del 2009, per le piccole e medie imprese nella regione più dinamica del nostro paese, è ancora da venire.

    L'era glaciale non è ancora arrivata. Almeno non nel Nord-est. L'era glaciale, o più precisamente la gelata delle aziende venete prevista alla fine del 2008 da Giuseppe Turani nell'inserto economico di Repubblica – Affari & Finanza – che avrebbe aperto una “stagione-incubo” a gennaio e febbraio del 2009, per le piccole e medie imprese nella regione più dinamica del nostro paese, è ancora da venire. Così come l'ondata dei fallimenti, “l'esplosione che avrebbe fatto sparire centinaia di aziende”, queste erano le previsioni di un autorevole osservatore economico, con uno sguardo preoccupato, legittimamente allarmato, sulle terre nordestine, non è ancora data. Sarà perché, come dicono molti dirigenti della Confindustria che a casa loro usano un linguaggio diverso da quello utilizzato nei forum istituzionali dalla sua presidente Emma Marcegaglia, erano più preparati ad affrontare la piena. Con un tessuto produttivo capace di reggere all'impatto della crisi che quassù, “morde, ma non azzanna”.

    E' questa infatti l'unica concessione fatta dal Nord-est a coloro che temevano l'apocalisse nella regione-locomotiva d'Italia. Addestrati, forse, dopo mesi di discussioni, panico, psicosi economico sociale e finanziaria, a inoculare antidoti, a innalzare dighe, a far fondo alle scorte e ricorrere a un uso qualche volta preventivo degli ammortizzatori sociali per affrontare il forte rallentamento dei mercati, il calo della produzione e degli ordinativi. Senza mai smettere, dove è stato possibile perché le aziende erano più forti, innovative, competitive e flessibili, di progettare, investire, cercare di fare rete. Promuovendo in qualche caso aggregazioni imprenditoriali per proteggere le aziende più fragili. Tutti convinti, o almeno questa è la loro bandiera che sventolano in continuazione, che, passato il terremoto, le scosse li obbligheranno a essere più forti, migliori che in passato. Ed è per questo che il prossimo convegno annuale della Confindustria vicentina, la terza per importanza in Italia per ricchezza industriale, che si terrà ad aprile,  aprirà i propri lavori con una relazione del suo presidente Roberto Zuccato con un titolo che, visti gli umori nazionali, ha quasi il sapore della sfida: “Prepariamoci a meglio”.
    E infatti, davanti  alla crisi che avanza in modo caotico, diseguale, i dati che emergono sono ancora molto contraddittori, da maneggiare con cautela. Ora che i primi dati congiunturali stanno emergendo, si può cominciare a fare un bilancio. La recentissima indagine congiunturale di Unioncamere evidenzia un drastico calo della produzione del 8,8 nell'ultimo trimestre del 2008: “E' il peggior risultato degli ultimi trent'anni”, ha commentato Bruno Anastasia, ricercatore dell'agenzia statistica della regione, Veneto Lavoro, il cui motto è: “La crisi non si evoca, si monitoreggia”. 

    Anche se Daniele Marini, della fondazione Nord-Est, osserva che “gli indicatori economici relativi ai primi mesi del 2009 sono leggermente migliori, e già a gennaio ci risulta che gli imprenditori ottimisti per una ripresa sono quasi raddoppiati”. Il numero dei disoccupati però è aumentato in modo sensibile, come aveva previsto Turani. Nel primo bimestre del 2009 ci sono stati in Veneto 7.000 licenziamenti: il doppio rispetto allo stesso bimestre del 2008, mentre i lavoratori messi in cassa integrazione sono stati a febbraio 2009 circa 17 mila, ma per ora le ore di cassa integrazione sono sulla falsa riga di quelle degli ultimi mesi del 2008. “La cassa integrazione non è l'unità di misura della crisi perché i dati sono parziali e non del tutto attendibili” ci ha fatto notare Anastasia perché diverse sono le ragioni adottate dalle aziende che a volte ne fanno ricorso a scopo preventivo per cautelarsi davanti al rallentamento della produzione. Ma il dato contrastante è un altro: il numero delle aziende che non sono calate, anzi sono aumentate sia per le modifiche della legge sui fallimenti sia perché probabilmente chi è rimasto senza lavoro ha aperto una partita Iva o ancora: chi ha chiuso un'attività, ha aperto aziende più piccole, per salvare i rami sani delle proprie attività. E infatti al 31 dicembre del 2008 le imprese erano addirittura  cresciute rispetto all'anno precedente: 66.898 nel settore manifatturiero.

    Il saldo fra lutto e nascite di aziende è ancora positivo a marzo del 2009 anche nelle aziende artigiane, che erano e sono, più a rischio. Lo conferma Mario Pozza, presidente della Confartigianato di Treviso, la provincia che è fra le più colpite dai licenziamenti. Si tratta di 13 mila piccole e medie aziende, che erano tali anche a dicembre, che però soffrono il rallentamento della produzione e il calo degli ordinativi in modo sensibile. “E' aumentata la cassa integrazione in deroga”, spiega Pozza al Foglio, ma sono aumentati anche gli industriali che ne approfittano per avviare ristrutturazioni fino a qualche mese fa impensabili e che ora possono farlo perché i sindacati sono disorientati dalla crisi e hanno abbassato la guardia”.

    Turani ha parlato di epidemia, di un eldorado finito, sfumato, scomparso. Vero, ma solo parzialmente, perché forse aveva sottovalutato il numero delle aziende virtuose che, essendosi affacciate su 60 mercati contemporaneamente per ora non hanno ancora alzato bandiera bianca. Che, valigia alla mano, erano andati in Asia minore, oltre che in Cina, ma anche nei paesi del Golfo, in Africa, in America latina. Secondo le ultime stime elaborate una settimana fa dall'osservatorio & Ricerca di Veneto Lavoro, il calo delle esportazioni in Veneto nell'ultimo trimestre è stato contenuto: - 0,4 per cento che invece nel resto del paese è stata molto maggiore - 6,6 per cento. Se quindi le previsioni di Turani paiono per ora ancora eccessive è forse perché il modello imprenditoriale un capannone-per-ogni-campanile nel frattempo si è evoluto, ci hanno spiegato più o meno tutti, lavoratori, imprenditori, analisti. E  ha accumulato soldi veri, per parafrasare Emma Marcegaglia. E ha continuato a differenziare prodotti e mercati ma anche a investire, se è vero  come invece ha dichiarato recentemente l'assessore regionale all'Economia, Vendemiano Sartor, che il 34 per cento delle aziende venete, nonostante la crisi, ha continuato a investire nella ricerca e nell'innovazione tecnologica.

    Allarme, attenzione, soluzione. Ecco come stanno ragionando i veneti. Gli artigiani chiedono minor pressione fiscale, maggior flessibilità, sia della cassa integrazione in deroga che nelle modalità lavorative e alcuni, come Pozza, si spingono a chiedere di applicare il contratto d'affitto della forza lavoro nelle aziende edili che non hanno lavoro che potrebbero essere utilizzate da quelle che invece ne hanno di più. Idee che scandalizzano i sindacalisti targati Cgil che in queste settimane organizzano presidi nelle fabbriche in crisi per chiedere maggiori ammortizzatori sociali, politiche pubbliche più incisive e interpretano il silenzio dei lavoratori, la bassa conflittualità sociale, come un segno della Grande Paura, come il preludio dello tsunami, che non è ancora arrivato “ma arriverà”, ci ha detto il direttore generale della Cgil veneta, Gianni Zanni, che annuncia: “I cicli previsti per la cassa integrazione di molte aziende si stanno esaurendo. E poi sarà la catastrofe”. D'accordo però anche loro che si debbano trovare soluzioni comuni per difendere i posti di lavoro.

    Favorevoli come i sindacalisti della Cisl ai contratti di solidarietà, alla settimana più corta, che in Veneto si stanno applicando in molte aziende per evitare i licenziamenti, anche se nessuno nel resto d'Italia se ne è accorto visto che quando se ne parla si continua ad elogiare la Germania che ha scelto la via della settimana corta. Convinti, i sindacalisti della Cgil, che la guerra fra poveri, fra stranieri e italiani, tanto evocata, tanto temuta, non si è ancora realizzata. “Il problema semmai è un altro: il lavoro nero che diventa l'unica alternativa per chi va in cassa integrazione o rimane senza lavoro”, ci ha detto Zanni. “Basta sfogliare la cronaca locale per capire che dietro le ispezioni della guardia di finanza ci sono piccoli imprenditori che denunciano la concorrenza sleale”. Allarme, attenzione, soluzione. E infatti non è un caso che a Treviso si ipotizzi da tempo, la disobbedienza civile, e la violazione del patto di stabilità per gli enti locali perché ci sono 41 comuni virtuosi che potrebbero investire fondi inutilizzati di 143 milioni di euro in piccole opere pubbliche e che in parte lo hanno già violato, disposti a pagare sanzioni piuttosto che acculare debiti che hanno i comuni verso le imprese edili perché qui il motto continua ad essere: “chi si ferma (e non produce) è perduto”.

    Allarme, attenzione, soluzione. E anche molta coesione sociale. Ecco come ragionano i veneti in queste settimane. Almeno questa è la percezione della Cisl, che a dicembre lanciava anatemi contro il modello del nordest che non era all'altezza della sua reputazione e per questo sarebbe stato piegato dalla crisi che ne avrebbe scoperto i lati deboli. E ora invece non si spiega il movimento frenetico del Nord-est che non vuole smettere di essere considerato tale. Stupefatta come molti dalla forza del suo sistema immunitario. Convinta, al contrario della Cgil, che il piano degli ammortizzatori sociali firmato dai sindacalisti e dalla regione, tre miliardi di euro, non siano una goccia del deserto. “Vedo molte imprese che stanno diversificando i prodotti, soprattutto nel settore dei servizi alle persone”, ci ha detto Franca Porto, segretaria regionale della Cisl. “Vedo molti imprenditori che calcato l'elmetto in capo vanno all'assalto di nicchie di mercato ancora scoperte. E vedo molta coesione sociale per impedire i licenziamenti e puntare sulla settimana corta”.

    Per Alessandro Vardanega, presidente della Confindustria di Treviso, il peggio è addirittura passato. E già si intravedono degli spiragli. Forse perché lui, che ha 45 anni e rappresenta la seconda generazione degli imprenditori del Nord-est, ritiene che la soluzione sia soprattutto quella delle aggregazioni imprenditoriali che permettono di continuare ad investire capitali anche in tempi di crisi. “Manca il capitale circolante, il credito si è ristretto, e il calo degli ordini in qualche settore si è inabissato”, ammette invece Roberto Zuccato, presidente della Confindustria di Vicenza. “Ci sono aziende all'estero che preferiscono perdere gli anticipi per ordini fatti che hanno poi annullato. Fino ad ora però abbiamo retto perché le nostre aziende sono solide e sono pochissime quelle indebitate da speculazioni finanziarie. Inoltre la fine della psicosi del 51 per cento delle quote aziendali, e cioè voglio-esser-paròn-a-casa-mia, nella mia azienda, è stata surclassata dalla crisi: le imprese stanno costruendo una rete di aggregazioni che ci renderà più competitivi”.

    Ne è convinto anche Andrea Tomat, neo-presidente della Confindustria veneta che non aveva previsto alcuna catastrofe nei primi mesi dl 2009 e gli eventi gli hanno dato ragione. “Il rallentamento della produzione è grave, ma fino a ora il nostro sistema produttivo ha reagito bene”, commenta. “Certo, i contraccolpi li potremmo vedere più avanti, ad aprile o maggio, e ora è impossibile fare previsioni. Ma credo che saranno scosse di assestamento. Bisogna tener duro e mantenersi nei mercati che per noi rappresentano il futuro: l'Asia minore. E nel frattempo usare ogni goccia della nostra borraccia, difendendo i posti di lavoro, razionalizzando, ottimizzando ogni piccola risorsa, senza mai smettere di investire. E poi dovremo ricreare una nuova archeologia produttiva basata su parametri diversi, ma una cosa è certa: non c'è stato il caos, abbiamo avuto una reazione ordinata alla crisi perché eravamo preparati”. Il mondo ha paura, e il Veneto attende lo tsunami che non è ancora arrivato ma potrebbe arrivare ad aprile, forse maggio, nessuno lo sa. Ma non per gli imprenditori che stanno puntando sul business dell'energia solare che sta crescendo in tutt'Italia e che in Veneto conta 223 impianti, di cui 383 nella marca trevigiana, costruiti negli ultimi sei mesi, dopo lo scoppio della bolla finanziaria. E infatti qui tutti citano il caso della dalla City Design di Fiorenzo da Ros che ha brevettato il sole di notte: pannelli fotovoltaici per illuminare i lampioni che illuminano le strade di Ormelle, a Treviso, e li ha esportati a Firenze e a Capodistria, e alla stazione ferroviaria di Napoli e li ha brevettati anche in Cina perché non si sa mai.

    Il credito si è ristretto, le grandi banche soffrono, la politica si divide sull'intervento dei prefetti per controllare il sistema creditizio, ma in Veneto le banche territoriali avanzano. Come Veneto Banca per citare un solo esempio, che ha seguito il famoso motto letterario “Adelante con juicio” e ora si può permettere una politica espansionistica che la porterà presto a conquistare l'Adriatico e ad arrivare fino in Puglia. Grazie ai soci, 30 mila piccoli e medi imprenditori ai quali non ha mai negato il credito, vanta un 25 per cento di crescita nel 2008, e il suo amministratore delegato, Vincenzo Consoli, può permettersi di dire una cosa che molti gli invidieranno: “Non abbiamo un solo titolo intossicato”, spiega al Foglio. “Oggi è il momento delle banche territoriali, che hanno patrimoni solidi. Succede lo stesso nelle aziende. Quelle grandi soffrono, quelle piccole e medie, gestite da un consorzio familiare, tengono. Ne siamo tutti stupefatti. Una volta si diceva piccolo è bello. Ora diciamo efficiente è bello. Il Nord-est è attrezzato ad affrontare crisi intense come quella che stiamo vivendo. Il problema è la durata. Se sarà lunga ci saranno problemi seri”.

    Certo, c'è chi balla e chi piange. Ci sono colossi, come la Safilo che produce occhiali di lusso, che ha un grosso debito finanziario di 570 milioni di euro e che ha presentato un piano drastico di ristrutturazione che mette a rischio 780 posti di lavoro. E ha i piedi di argilla anche la Plastal, multinazionale svedese, che produce componentistica per l'industria dell'auto e ha deciso di chiudere ogni attività produttiva all'estero, compreso lo stabilimento di Oderzo con 700 lavoratori. Ma nel frattempo la società che controlla l'acqua minerale San Benedetto ha revocato la cassa integrazione e ha annunciato investimenti per 20 milioni di euro. Ma nel frattempo la Lux Ottica di Belluno di Leonardo Del Vecchio ha firmato un protocollo per un welfare aziendale che ha fatto luccicare gli occhi ai sindacalisti che non avevano mai visto nulla del genere prima d'ora: due milioni di euro nel 2009 da investire per calmierare la diminuita capacità di acquisto dei lavoratori che prevede buoni sconto sul cartello spesa, ticket sanitari e borse di studio per i figli dei dipendenti, 4000 in tutto. A Belluno, il distretto degli occhiali, messo in difficoltà dalla crisi, che avrebbe dovuto essere il primo a saltare per aria, a giudicare dalle nefaste previsioni, nessuna azienda ha ancora chiuso: “Si applicano da mesi i contratti di solidarietà per diminuire i contraccolpi e far lavorare tutti”, ci fa notare Rudy Roffarè, della Cisl.

    A dicembre, quassù, ci si comportava come se stesse per arrivare una guerra nucleare, si organizzavano tavoli sulla crisi che poi però si disertavano. Si facevano indagini sulle aziende che stavano per chiudere che poi però si smentivano. Ci si chiedeva se la festa fosse finita e ci si confondeva le idee, gli uni con gli altri. Poi forse ci si è accorti che il tesoretto del Nord-est era ingente. Oppure che l'arretratezza finanziaria ha messo al riparo molti imprenditori dalla sindrome dei derivati. O ancora, che il sistema delle imprese familiari, che dopo la delocalizzazione si era internazionalizzato, ha costruito un modello più saldo. La verità è che tutti ci girano intorno perché nessuno sa spiegarselo bene. E ora, seppur nell'incertezza del calo degli ordini, seppur nella sofferenza di chi si trova ai margini della filiera, nel gradino più debole della scala sociale del distretto (tenendo conto però che il Veneto è la regione dove la ricchezza è maggiormente distribuita in Italia e forse è questa la vera ragione del silenzio dei lavoratori, della ridotta conflittualità), la reazione è più ordinata. Più cautamente ottimista. E tutti dicono “non ora, non adesso. Non ancora”.

    E allora visto che la crisi può e deve essere un'opportunità, per dimostrare a tutti che l'Eldorado non è tramontato, non per sempre, si scende in piazza. Non per bruciare le gomme ai proprietari dei Suv, ma per celebrare ancora una volta il Nord-est. In una kermesse glocal, che si terrà dal 2 al 5 aprile in cinque comuni veneti. Un festival delle città-imprese itinerante organizzato dal mensile Nordesteuropa in cui economisti, docenti universitari, scrittori, imprenditori, presidenti di piccole aziende in bilico e detentori di enormi fatturati discuteranno come superare la crisi garzie al talento e alla smania di innovazione che ha fatto grandi i veneti nel mondo. E, presuntuosi, visto che recentemente sono andati fino a New York per dimostrare che se la silicon valley è tramontata, nel Nord-est in piena crisi è nata l'innov(e)tion valley perché – come ha dimostrato il suo inventore, Cristiano Seganfreddo, che ha scritto un manifesto sull'innovazione in Veneto –  fra Venezia e Padova si trova il più alto tasso di innovazione (e di brevetti) del mondo. Il festival si intitolerà “Innovare per vincere la crisi”, e servirà a dimostrare che se il Nord-est non è più quello del miracolo economico, è sicuramemnte quello che miracolosamente resiste perché ha un marcia in più. Perché visto che l'era glaciale 1 non è arrivata, e nessuno ha davvero capito perché, allora anche l'era glaciale 2 può attendere.