Ma quanto è pasticcione Zapatero, dice il direttore del Mundo

Guido De Franceschi

Il capo del governo “è un uomo dolce e amabile nelle forme, ma in realtà molto determinato e molto fermo”. La gestione dell'economia “è un disastro”, così come il caos creato sulla questione del ritiro delle truppe dal Kosovo. Lo scontro radicalizzato sull'aborto.

    Pedro J. Ramírez è il direttore del Mundo, uno dei grandi giornali spagnoli, di impronta liberale e spirito battagliero. La “J” puntata, che in castigliano si pronuncia “jota”, sta per José, ma Ramírez ci tiene così tanto alla maiuscola con il punto che in Spagna è per tutti “Pedro Jota”. Autorevole osservatore del suo paese, nel suo ufficio nella redazione del Mundo, racconta al Foglio le sue opinioni sulla Spagna di oggi. A partire dalla sostanziale crisi dei due grandi partiti.

    Il Partito socialista (Psoe) è sempre più solo in Parlamento e fatica a sostenere l'esecutivo di minoranza di José Luis Rodríguez Zapatero. Nel Partito popolare (Pp), invece, benché la leadership di Mariano Rajoy si sia un pochino rafforzata con la vittoria nelle regionali in Galizia e con il primo governo non nazionalista nel Paese basco, non si è affatto sopita una feroce guerra intestina per correnti. “Credo che il Pp abbia come problema di fondo il suo deficit democratico – spiega Pedro Jota, il cui giornale è decisamente ostile nei confronti di Zapatero, ma quasi altrettanto verso Rajoy – La leadership del Pp non è stata decisa in forma democratica. Rajoy fu scelto attraverso indicazione con il dito”, cioè per designazione personale di Aznar, “nello stesso modo in cui presidenti messicani del Partito rivoluzionario istituzionale sceglievano i loro successori”.

    Questo sistema “poteva funzionare, e ha funzionato, nel caso di Aznar – che è stato scelto alla stessa maniera da Manuel Fraga – in primo luogo perché la democrazia spagnola allora era meno sviluppata e in secondo luogo perché Aznar vinse le elezioni mantenendo in generale una traiettoria ascendente”. Rajoy, invece, le elezioni le ha già perse due volte di fila. “Sì. Anche Aznar ha perso due volte, però sempre con una traiettoria in crescita. Penso che il Congresso di Valencia (che l'anno scorso ha confermato la leadership di Rajoy, ndr.) sia stato un Congresso ben poco democratico, perché per essere candidati era necessario avere l'avallo anticipato di una certa percentuale di votanti. E in pratica soltanto Rajoy poté presentarsi”. Il direttore del Mundo, però, sembra fiducioso nel fatto che qualcosa sia destinato a cambiare. Per la virtuosa influenza del modello americano. L'esempio statunitense nel Partito democratico ha avuto un'influenza positiva perché “ha mostrato come in un partito ci possa essere un dibattito molto forte, ci possano essere due candidati che si scontrano per mesi e mesi, attaccandosi uno con l'altro, ma che la forza di questa competizione possa poi essere capitalizzata dall'insieme del partito. E ha mostrato che gli avversari possono poi trasformarsi in collaboratori”.

    Anche Zapatero, d'altronde, sembra avere un piglio piuttosto deciso nell'emarginare tutti quelli che nel suo partito si rivelano portatori di qualche istanza un po' eterodossa. E sembra che dietro il suo sorriso si celi il desiderio, sostanzialmente realizzato, di un dominio assoluto sul Psoe. Il direttore del Mundo conviene sul fatto che il premier “è un uomo dolce e amabile nelle forme, ma in realtà molto determinato e molto fermo”, però ricorda anche che nel 2000 Zapatero è uscito vincitore da un congresso in cui si misuravano quattro candidati e l'ha spuntata su José Bono per soltanto nove voti. E quindi “ha questa legittimazione originaria e poi il fatto che ha vinto due elezioni politiche. E poi credo che, quando detiene il potere, un partito si unisca molto”. Oltre al Psoe e al Pp ci sono i piccoli partiti nazionalisti che perdono potere nelle loro regioni di riferimento, ad esempio in Galizia e nei Paesi baschi, ma mantengono protagonismo a Madrid. Anzi “hanno una posizione chiave, perché al Psoe mancano sette voti per avere la maggioranza. E i partiti nazionalisti hanno una ventina di seggi. Il problema è la nostra legge elettorale”.

    Oltre alle difficoltà politiche, però, ora ci sono, più che altro, problemi economici. La crisi ha colpito con durezza la Spagna. E la crescita della disoccupazione preoccupa un paese che teme di tornare a un recente passato in cui i senza lavoro erano moltissimi. Le misure di contrasto alla crisi attivate dal capo del governo e dal suo ministro dell'Economia (e vicepremier) Pedro Solbes non convincono molti osservatori e neppure Ramírez, che spiega come secondo lui “la gestione dell'economia da parte del governo di Zapatero sia un disastro. Credo che in primo luogo abbia tardato molto ad ammettere la realtà e la gravità della crisi. E che poi le misure che è andato adottando siano state delle improvvisazioni. Noi del Mundo, come anche altri che hanno posizioni più vicine al governo, abbiamo sostenuto già circa un anno fa la necessità di un patto di stato che includa il governo e l'opposizione, le associazioni degli imprenditori e i sindacati. Attraverso questa negoziazione si dovrebbero affrontare riforme strutturali, come la riforma del mercato del lavoro, riforme che facilitino l'unità del mercato interno, misure di tipo fiscale e tributario. C'è il proverbio ‘a mali estremi, estremi rimedi': i nostri mali sono molto grandi e i nostri rimedi sono minuscoli, ridicoli”.

    Zapatero pare intenzionato a battere gli stessi sentieri che hanno caratterizzato la sua prima legislatura e cioè a continuare nel suo progetto di ampliamento dei diritti. Ora è il turno della cosiddetta “ley de plazos”, cioè della riforma, in direzione permissivista, della vigente legislazione sull'aborto. A tal proposito il direttore del Mundo dice che a Zapatero “piace esagerare e stimolare i conflitti sui temi sociali che possono sollevare un dibattito tra sinistra e destra, Spagna conservatrice versus Spagna progressista, anche se si tratta a volte di dibattiti artificiali. E la maniera di suscitarli consiste nel radicalizzare le posizioni per avere il maggior impatto possibile, un impatto favorevole nella sinistra e sfavorevole, di rifiuto e di mobilitazione nella destra. Perché crede che questa dinamica lo favorisca e perché ciò gli permette di dilazionare la discussione sui grandi temi che certamente toccano i cittadini, come l'economia o la struttura dello stato. Invece si sviluppano dibattiti abbastanza puerili. Ma a volte, come nel caso dell'aborto, dietro alla puerilità ci sono questioni molto serie e importanti”.

    Come nel caso di altre precedenti iniziative zapateriane, in Spagna le posizioni rispetto alla annunciata ley de plazos si divaricano in una durissima contrapposizione “Io sono d'accordo sul fatto che la legge sull'aborto sia da riformare – dice Pedro Jota – La legislazione vigente stava permettendo tremendi abusi che a volte erano autentici infanticidi, perché in Spagna si stavano praticando aborti molto tardivi con la scusa del rischio per la salute psichica della madre, qualora ci fosse un medico disposto ad accreditarlo”. Il problema è la vaghezza della legge. “E' un concetto così astratto il rischio per la salute psichica della madre… Cosa significa? Che potrebbe cadere in depressione? Quindi sono d'accordo con la riforma della legge, ma credo che dovrebbe tendere a una maggiore restrittività, pur probabilmente garantendo l'esercizio del diritto all'aborto in determinate circostanze e in tutta la Spagna. Perché è vero che ci sono alcune regioni nelle quali non si trovano medici disposti a praticare aborti nei termini di legge. Al margine dell'opinione morale che ciascuno ha riguardo all'aborto, io credo che la legge debba adempiersi e che se si stabilisce che in determinati casi una donna ha diritto ad abortire credo che sia un obbligo per lo stato il garantire l'esercizio di questo diritto”.

    Però, secondo Pedro Jota, oltre a una certa settimana, la dodicesima o la quattordicesima, il praticare un aborto deve continuare a essere considerato un crimine, salvo che ci sia un reale e serio rischio per la vita della madre. “Questa è la mia opinione e penso che si sarebbe potuto raccogliere un ampio consenso. Però Zapatero non desidera il consenso, bensì il dissenso. In relazione all'aborto così come è stato nel caso del matrimonio omosessuale”. Però in attesa della nuova legge sull'aborto la mobilitazione dei cittadini critici verso il governo sembra essere un po' più timida di quanto non lo sia stata quella che si sviluppò in opposizione al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Questo, secondo il direttore del Mundo, accade perché “i movimenti anti abortisti sono percepiti come molto radicali e con posizioni molto intransigenti e poco flessibili, cosa rispettabile dal punto di vista morale, della coscienza, ma poco ‘pratica' dal punto di vista politico. Io penso che l'aborto sia uno di quei temi in cui c'è un conflitto fra diritti, per cui è necessario raggiungere un qualche punto di equilibrio che inevitabilmente finisce sempre per lasciare tutti insoddisfatti ma, allo stesso tempo, rappresenta ciò che è accettabile per l'insieme della società. E' un po' come la posizione di Isaiah Berlin. Quando i diritti entrano in conflitto non esiste una soluzione che sia soddisfacente quanto alla difesa della libertà nel suo insieme”.
    Comunque, dopo cinque anni di zapaterismo, la Spagna appare un paese profondamente cambiato. Secondo Pedro J. Ramírez, questa non è una gran novità perché “la Spagna è vista come un esempio di come si può uscire con successo da una dittatura. E credo – aggiunge – che Zapatero all'inizio fosse ammirato per il suo spirito innovatore e l'atteggiamento da post caduta del muro, per la ricerca di un'impostazione nuova per una sinistra più moderna, del XXI secolo. Ma penso che la sua pessima gestione dei problemi concreti e la dimensione che sta prendendo la crisi economica in Spagna, crisi che è molto più grave che altrove, abbia già fatto sì che l'ammirazione per Zapatero sia molto diminuita”.

    Il direttore del Mundo non vede tutto nero. E plaude al nuovo corso che si apre nel Paese basco, che attende l'insediamento del primo governo senza partiti nazionalisti. “E' una delle migliori notizie che si potessero avere dal punto di vista della democrazia, dei diritti umani, di un concetto liberale della società”. Pedro Jota è fortemente ostile ai nazionalismi e il suo giornale conduce una dura, incessante campagna per la difesa della lingua spagnola nelle Comunità autonome in cui i governi locali si battono per una prevalenza massiccia, specie nell'istruzione, del catalano, del basco e del galiziano. Un tema questo che divide il paese, ma di cui, fuori dalla Spagna, è difficile comprendere la portata. Pedro Jota lo spiega così: “Andate a Barcellona, dite che avete un figlio di sei anni e che lo volete inserire in una scuola con insegnamento in lingua spagnola, spiegando di essere italiani e che la vostra sarà una breve permanenza in Spagna per poi andare magari in Sud America. E vedrete che a Barcellona è impossibile che il figlio di chicchessia studi in spagnolo. E non sto invocando un diritto previsto nella Costituzione ma una cosa di buonsenso comune. E questo non succede in nessuna parte di Europa. Anzi succede soltanto nelle isole Faer Oer e in Groenlandia. E' un vulnus a uno dei diritti più elementari di un essere umano, il diritto di educare un figlio nella propria lingua materna”.

    D'altra parte il problema con nazionalismi e secessionismi influenza la Spagna anche in alcuni temi di politica estera. E' il caso del Kosovo che Madrid non ha mai riconosciuto, visto che baschi e catalani lo indicano, peraltro con qualche ragione, come un precedente. E quindi ora Zapatero punta al ritiro delle truppe spagnole dallo stato balcanico. Ma la decisione è stata annunciata alla chetichella, senza che i ministri competenti né gli alleati si fossero consultati sulla questione. Ne è scaturito un putiferio in patria e una grossa figuraccia all'estero. “Quasi tutti i media spagnoli – commenta il direttore del Mundo – erano d'accordo sul ritiro dal Kosovo, dal momento che la Spagna non lo ha riconosciuto e riteniamo che la comunità internazionale abbia commesso un errore nel dare riconoscimento a una dichiarazione di indipendenza unilaterale, senza tener conto delle istanze di quello stato di cui il Kosovo faceva parte. Ma quello che nessuno si aspettava è che una cosa semplice sarebbe stata gestita in modo così goffo, cioè senza accordarsi, senza consultarsi, senza coordinarsi con gli alleati”. Un nuovo fallimento, insomma, della politica estera di Madrid, che continua a essere poco incisiva, nonostante i disperati sforzi di Zapatero per restituire alla Spagna un ruolo internazionale di rilievo, riallacciare buoni rapporti con gli Stati Uniti di Obama, ottenere una seggiola al G20 e riempire di contenuti l'Alleanza delle civiltà. Ma al riguardo Pedro Jota è tranchant:  “La politica estera spagnola ha in comune con la politica economica e con quella territoriale il suo carattere straordinariamente pasticcione. E' una politica basata sulle ‘trovate', sui gesti per apparire in tv ed è ben poco efficiente per quanto riguarda le regole della diplomazia”.