Bashir sfrutta il momento

Il Sudan ha un piano per liberarsi dei medici scomodi nel Darfur

Giulia Pompili

Comincia la strategia del governo sudanese per sbarazzarsi delle ong occidentali. Due giorni fa il rapimento di tre volontari di Medici senza frontiere – uno di loro, Mauro D'Ascanio, è italiano – a Saraf Umra nel Darfur non è stato rivendicato; l'Agenzia delle Nazioni Unite parla di un riscatto, ma Msf smentisce: “Non ci risulta nessun riscatto, né alcuna rivendicazione”.

    Comincia la strategia del governo sudanese per sbarazzarsi delle ong occidentali. Due giorni fa il rapimento di tre volontari di Medici senza frontiere – uno di loro, Mauro D'Ascanio, è italiano – a Saraf Umra nel Darfur non è stato rivendicato; l'Agenzia delle Nazioni Unite parla di un riscatto, ma Msf smentisce: “Non ci risulta nessun riscatto, né alcuna rivendicazione”. La banda di uomini armati, non identificabili, che è entrata negli uffici dell'associazione, ha rapito cinque volontari e poi ha rilasciato due sudanesi e trattenuto gli occidentali potrebbe essere la prosecuzione – per fare pressione sulle ong e intimidire i volontari – dell'ordine di espulsione emanato la settimana scorsa da Khartoum, dopo che la Corte internazionale dell'Aia ha spiccato un mandato d'arresto contro il dittatore Omar al Bashir. Ieri Msf ha ritirato i suoi operatori e sospeso tutte le attività.

    Perché espellere e minacciare le ong, che con la loro vasta rete assistenziale e di distribuzione viveri tengono in vita 2,7 milioni di profughi e nelle aree desertiche sono l'unica fonte certa di cibo e medicinali? Ieri il ministro sudanese per gli Affari umanitari, Ahmed Haroun, anche lui come Bashir accusato di crimini di guerra, annunciava alle agenzie: “Siamo pronti a ricevere altre associazioni non governative, abbiamo ricevuto molte domande dai paesi arabi e dall'Asia”. E' il piano del Sudan per liberarsi delle ong occidentali scomode: quelle che hanno ricevuto l'ordine di espulsione sono tredici delle ottantacinque sul territorio, ma impiegano il 40 per cento del personale in Darfur, 7.000 persone. Per il World food program delle Nazioni Unite, con la perdita delle quattro ong americane il Sudan perde il 35 per cento della rete di distribuzione viveri. Il Sudan vuole sostituirle con altre associazioni, che possono lavorare secondo l'interesse del regime.

    Alcuni rimpiazzi arrivano dai paesi arabi, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati arabi uniti. I regni sunniti hanno una concezione di associazione non governativa diversa da quella occidentale: le istituzioni di beneficenza e assistenza sono le teste di ponte del proselitismo wahabita – la dottrina islamica più dura e austera, che grazie ai petrodollari sta colonizzando il mondo musulmano dalla Bosnia all'Indonesia. Nel migliore dei casi, se anche non andassero esplicitamente a braccetto con il governo di Khartoum, le ong arabe seguirebbero comunque le indicazioni dei loro governi, che si sono  appena opposte al mandato d'arresto contro il regime sudanese per le atrocità su scala gigantesca commesse nel Darfur. Mercoledì alla base aerea di Riad il re Abdullah dell'Arabia Saudita, il presidente egiziano Hosni Mubarak e il presidente siriano Bashar el Assad si sono accordati: vogliono fare pressioni internazionali per “congelare” il mandato d'arresto “che lede la dignità dei paesi arabi e la loro sovranità”.

    I paesi arabi non sono i soli a mandare avanti le loro associazioni “non governative”. C'è anche l'Iran, che scopre nel Sudan l'alternativa alla Siria, alleato sempre meno saldo. Il 7 marzo, subito dopo la notizia del mandato d'arresto internazionale contro al Bashir, il partito terrorista Hamas e la sua nazione sponsor, l'Iran, hanno mandato una delegazione congiunta di altissimo livello per solidarizzare con il regime: c'erano il presidente del Parlamento iraniano, Ali Larijani, e Abu Marzouk, numero due del ramo “in esilio” a Damasco di Hamas. All'inizio di febbraio era anche trapelata la notizia che la Siria, obbligata a mostrare chiari segnali di buona volontà con Israele – ci sono trattative in corso – vorrebbe scaricare su Khartoum la leadership di Hamas, Khaled Meshaal incluso, da anni ospitata a Damasco. Il Sudan è un alleato disponibile: già oggi il governo condanna automaticamente a morte come “agente del Mossad” qualsiasi profugo sudanese ripari anche per un giorno in Israele. Gerusalemme non sta a guardare: a febbraio Amos Gilad, l'ex generale che negozia con l'Egitto il confronto contro Hamas, ha arrangiato un incontro con il capo dei ribelli sudanesi Abdel Wahid al Nur, propiziato da alcuni volontari di ong francesi.

    Ci sono anche Cina e Russia nella corsa alle ong in Sudan. Pechino l'anno scorso ha chiesto a Khartoum di zittire le ong occidentali e la loro propaganda anticinese. L'inviato nel Darfur, Liu Guijin, dice che il ruolo del suo paese in Africa è stato distorto dai volontari occidentali. E ora il ministro Haroun parla con vaghezza di ong in arrivo “dall'Asia”. Anche la Russia, che vende a Khartoum jet militari e altro materiale bellico, vuole sospendere il mandato d'arresto e si dice pronta, per bocca del suo inviato nella regione Mikhail Margelov, a inviare la sua “assistenza”.

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.