Nasce la teoria economica del giornalismo e spunta l'idea di trasformare i giornali in fondazioni (per salvarli)

Giuseppe Pennisi

I guai del giornalismo su carta stampata (in un'epoca di pubblicità calante e di acuita concorrenza da parte di altri media) non sono minori negli Stati Uniti che in Europa e in Italia. Negli ultimi cinque anni, il margine operativo lordo del Washington Post ha segnato una flessione del 25 per cento e quello del New York Times (che ha acceso un'ipoteca sulla propria sede) del 50.

    I guai del giornalismo su carta stampata (in un'epoca di pubblicità calante e di acuita concorrenza da parte di altri media) non sono minori negli Stati Uniti che in Europa e in Italia. Negli ultimi cinque anni, il margine operativo lordo del Washington Post ha segnato una flessione del 25 per cento e quello del New York Times (che ha acceso un'ipoteca sulla propria sede) del 50. Il Chicago Tribune, il Los Angeles Times e altre sei testate un tempo importanti hanno dichiarato fallimento. Sono state effettuate riduzioni drastiche d'organico e chiusi gran parte degli uffici di corrispondenza, soprattutto all'estero. In questo quadro, David Swensen, direttore della finanza alla Università di Yale, e Michael Schmidt, docente di Finanza aziendale, hanno formulato una proposta non banale: dato che la carta stampata è essenziale alla democrazia (ne è il vero e proprio sale, secondo quanto scritto da Thomas Jefferson nel lontano 1787) trasformiamo la natura economica dell'editoria – da un settore industriale diretto all'utile d'impresa a un comparto come le fondazioni no profit (analogo alle università private, negli Stati Uniti e altrove), il cui stock di capitale sia una dotazione, fornita da filantropi (agevolati da esenzioni tributarie), e le cui finalità siano quelle di fornire informazioni e analisi (se si vuole pure di tendenza) ma svincolate dalle esigenze di breve periodo di rispondere a questa o a quella lobby, o a questo o a quel partito, per pubblicità, per acquisti d'abbonamenti all'ingrosso e per altre facilitazioni. Si tratterebbe di fondazioni svincolate solo in parte dal mercato: così come le università fanno pagare rette (direttamente proporzionali alla loro qualità e reputazione), i giornali andrebbero in edicola e farebbero a gara per il sempre più ridotto mercato pubblicitario. Potrebbero avere sovvenzioni pubbliche dirette a combattere “il morbo di Baumol” (vedi “Il Foglio” del 13 ottobre 2008). In giornali di proprietà di fondazioni non profit, i giornalisti guadagnerebbero in autonomia e autorevolezza; come per le università, la pubblicità, i lettori e le sovvenzioni correrebbero verso chi è più autorevole. La proposta include un minimo di conti: per un'impresa come il New York Times (che costa 200 milioni di dollari l'anno), la fondazione dovrebbe avere una dotazione di 5 miliardi di dollari, cifra elevata ma raggiungibile se raffrontata con le dotazioni delle grandi università.

    La proposta potrebbe curare alcune disfunzioni contenutistiche. Ad esempio uno studio recente del Massachusetts Institute of Technology (Nber Working Papers N. w14598) analizza come negli ultimi dieci anni, 35 scandali politici americani sono stati trattati dalla stampa: quella locale è violentemente di parte, mentre quella nazionale tende a essere maggiormente oggettiva pur se i quotidiani di orientamento democratico danno maggior rilievo a scandali in cui sono coinvolti politici repubblicani e viceversa. Uno studio, ancora in versione provvisoria, dell'Università di Gottingen (CESifo Working Paper n. 2493) mostra che il fenomeno è generalizzato: l'analisi empirica quantizza come la stampa incide sulla spesa pubblica soprattutto a livello locale – e quindi sulle probabilità di ri-elezione.
    E' dalla vecchia Europa che viene l'idea che potrebbe rendere vincente la proposta di Swensen e Schmidt. La lanciano, in uno degli ultimi numeri della rivista scientifica tedesca “Kyklos”, Susanne Fenger e Stephan Russ-Mohl, che non citano e non sembrano avere contezza del lavoro di Swensen e Schmidt. L'idea è di costruire una teoria economica del giornalismo, analoga alla teoria economica della democrazia, della politica, delle religioni, dell'arte e via discorrendo: mettendo gli strumenti più recenti della disciplina economica a servizio della professione, si possono curare una serie di malanni (quali l'influenza delle relazioni pubbliche sui media, la vera o presunta leggerezza – oppure l'eccesso – nel trattamento delle informazioni, il giornalismo “da rincorsa”, il giornalismo da “consigliere del principe”) che non hanno giovato al settore e sono anche causa di perdita di lettori e di pubblicità. Susanne Fenger e Stephan Russ-Mohl tratteggiano quelle che potrebbero essere le basi di una teoria economica del giornalismo da cui scaturirebbero non tanto pandette di regole deontologiche quanto quelle prassi d'effettiva indipendenza e autorevolezza che darebbero corpo alla proposta di Swensen e Schimdt sulle fondazioni.