Quando sbanca il banco

Paola Peduzzi

Quattordici marzo del 1933, “inauguration day” per Franklin Delano Roosevelt, il presidente entrante ereditò un indice di Borsa che aveva perso l'82 per cento del suo valore in quattro anni. Fu il giorno in cui risuonò potente la famosa frase: “Tutto ciò di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”.

    Quattordici marzo del 1933, “inauguration day” per Franklin Delano Roosevelt, il presidente entrante ereditò un indice di Borsa che aveva perso l'82 per cento del suo valore in quattro anni. Fu il giorno in cui risuonò potente la famosa frase: “Tutto ciò di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. L'indomani Roosevelt proclamò una “bank holiday”, chiuse tutte le banche a tempo indeterminato, cioè fino a che banchieri e governo non avessero trovato una soluzione per stabilizzare il settore bancario (la chiamò “holiday”, vacanza, perché già allora i mercati erano parecchio sfiduciati e un altro termine avrebbe scatenato piagnistei pericolosi). Otto giorni dopo, Roosevelt annunciò che le banche più solide avrebbero riaperto. Nel frattempo aveva fatto passare l'Emergency Banking Bill – complice il Congresso che si dimostrò disposto ad accettare ogni strategia presidenziale – con cui aveva ristrutturato e rafforzato le banche che avevano dimostrato le maggiori garanzie di solvenza. Il primo giorno di riapertura dei mercati, il 15 marzo, il Dow guadagnò il 15 per cento e nei primi cento giorni della presidenza rooseveltiana l'indice recuperò il 75 per cento del suo valore.

    Nel suo primo giorno da presidente, Barack Obama, si ritrova con un settore bancario al collasso e uno stuolo di commentatori ed economisti che non fanno che parlare di nazionalizzazione. Quel che fino a poche settimane fa era uno spauracchio evocato quasi per caso, l'uomo nero per i bambini cattivi, ora riempie le prime pagine dei giornali. Più in Inghilterra che negli Stati Uniti, a dire il vero, ma perché il premier britannico, Gordon Brown, è a un livello di sperimentazione salvabanche più avanzato rispetto a quello dell'Amministrazione americana e perché a Londra il socialismo non fa tanta paura come oltreoceano. Ma se il Wall Street Journal europeo ieri titolava sulla “paura crescente della nazionalizzazione delle banche” nel Regno Unito, è di inizio settimana un articolo del New York Times riferito agli Stati Uniti dal titolo: “Il salvataggio delle banche allude a una nazionalizzazione”.

    Eppure, nonostante l'onda keynesiana che ha sommerso il mondo, i governi di Londra e Washington sono riluttanti a una nazionalizzazione completa degli istituti di credito. Come spiega l'Economist in edicola oggi, la proprietà statale delle banche può avere senso in alcuni singoli casi, ma non a livello di sistema, soprattutto se l'acquisizione da parte dello stato non avviene a prezzi di mercato (in questo caso infatti il costo del capitale a lungo termine non può che crescere). Ma è il problema politico, più che quello economico, a preoccupare Brown e Obama. Nazionalizzazione significa costi per i contribuenti moltiplicati e un impegno nei consigli di amministrazione delle banche che porterebbe a un continuo negoziato tra le parti: le banche di stato possono aiutare a ristabilire la fiducia, ma storicamente hanno dimostrato di non saper allocare l'offerta di credito in modo efficiente quanto le banche private. Come spiegò Obama a “Meet the Press” a dicembre, “il governo non vuole guidare le società, storicamente non l'ha fatto mai molto bene”. Lo stato inglese possiede già il 68 per cento di Royal Bank of Scotland e il 43 di Lloyds, ma la nazionalizzazione completa – secondo le stime del Wall Street Journal – accollerebbe ai contribuenti inglesi quattromila miliardi di dollari di debito da ripagare.

    Per di più l'exit strategy dalla nazionalizzazione è incerta e complicata – c'è qualcuno che vuol sentir parlare di privatizzazioni di questi tempi? Londra e Washington puntano i piedi, dunque. Timothy Geithner, nominato al Tesoro da Obama, in tre ore di “flagellazione”, come ha definito il Washington Post le audizioni alla commissione Affari bancari del Senato, non ha detto che cosa farà di preciso per salvare gli istituti di credito anche se ha precisato di non voler più utilizzare “assegni in bianco”. Dall'inizio dell'anno le quattro principali banche americane hanno dimezzato il loro valore: Wells Fargo ha perso il 50 per cento, Bank of America il 64, J.P. Morgan Chase il 43 e Citigroup il 58. Il presidente di Citigroup è stato sostituito due giorni fa, e ieri si è dimesso John Thain, ex ceo di Merrill Lynch, comprata da Bank of America a settembre: il buco che Merrill ha portato in dote è esorbitante, così come il bonus che Thain ha voluto a tutti costi assegnarsi. “Una delle cose che abbiamo imparato in questi ultimi diciotto mesi – ha spiegato Geithner – è che l'incertezza è stata creata dai segnali esitanti che abbiamo lanciato senza far seguire alle parole alcuna azione specifica”. Secondo il Financial Times, il team obamiano starebbe pensando di creare una “bad bank”, cioè una banca che possa isolare tutti gli asset tossici che vagano indisturbati sul mercato e che determinano due conseguenze catastrofiche: i mercati non si fidano e le banche non danno a prestito, cioè nessuno fa quel che dovrebbe fare. Il nostro ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ha suggerito l'idea di una “bad bank” globale, in cui infilare tutto quel che di marcio c'è in giro, da tenere congelata per i prossimi cinquant'anni e poi da smaltire in qualche modo.

    L'idea che sta circolando come argine ultimo alla nazionalizzazione è quella di una “bad bank” a livello statale o, al limite, per gli istituti più esposti sui titoli tossici. Il principio è quello adottato per Alitalia: la “bad company” si è presa i debiti e la parte sana della compagnia (Cai) ha ricominciato a far volare gli aerei. La “bad company” è del Tesoro e ora il Tesoro deve trovare il modo di ripagare quei debiti. La “bad bank” funzionerebbe più o meno allo stesso modo: lo stato prende in carico tutto quel che di malsano c'è negli istituti di credito, i quali potrebbero ripartire con i bilanci puliti, rimanendo ovviamente privati. David Roche, analista e consulente finanziario con base nella City, ha scritto ieri sul Wall Street Journal che la crisi giapponese degli anni Novanta ha impartito una grande lezione: se non si permette al mercato di ripulirsi, la crisi va per le lunghe. Secondo Roche, la creazione di “bad bank” ha già avuto successo in Svezia negli anni Novanta (costò però il quattro per cento del prodotto interno lordo del paese, anche se Roche non lo specifica) e il procedimento non è affatto così complicato come i detrattori vogliono far credere. “Le banche devono essere obbligate alla trasparenza sui loro asset tossici – scrive – Le banche tedesche sono contagiate per 300 miliardi di euro, le banche inglesi probabilmente per 200 miliardi di sterline, le banche americane forse per 800 miliardi di dollari”.
    Il problema sta in quei “probabilmente” e “forse”. Nessuno sa con esattezza quanto è grosso il cancro finanziario che affligge il sistema. E' proprio questo che impedisce il ritorno al “business as usual”. In più, come possono essere contabilizzati asset che non hanno un valore di mercato? Edward Carr, che ha curato il  report sul sistema finanziario dell'Economist, spiega al Foglio che la “bad bank” ha un “vantaggio psicologico” indubbio, ma “costringe le banche a essere trasparenti, il che potrebbe portare, soprattutto nel primo periodo, a scoprire perdite ancora maggiori”. Il mercato ne risentirebbe. In più c'è anche la possibilità – sottolinea Carr – che “le banche che oggi sembrano sane si rivelino ‘bad'”, con ulteriori costi per il meccanismo.

    Gordon Brown ha deciso di non adottare la strategia della “bad bank” nella seconda tranche del suo bailout finanziario annunciato lunedì proprio perché non riusciva a rispondere a tali quesiti. Per questo il governo britannico ha messo a punto uno schema assicurativo per gli istituti di credito che implica sia un'iniezione di liquidità sia una garanzia sui bilanci. Ma, da quando il premier inglese ha annunciato il piano, le banche del Regno Unito sono collassate: ha cominciato la Royal Bank of Scotland, ma poi nessuno è rimasto illeso, di certo né Lloyds né Barclays. Il governo naturalmente chiede tempo prima di sancire il fallimento del piano, ma grava sulla performance bancaria di Brown già un piano di salvataggio adottato a ottobre – del valore di 270 miliardi di euro – che non è bastato, soprattutto dal momento che il peso specifico del settore bancario sull'intera economia è ben più alto in Inghilterra che in molti altri paesi.

    Ecco che allora si torna al punto di partenza: la “bad bank” è l'ultimo argine alla nazionalizzazione. E' in grado di contenere un fiume così agitato e incontrollabile come la finanza? Edward Carr suggerisce che, se ben congeniato, l'argine – “il cordone sanitario”, come lo definisce l'Economist – può tenere: è necessario che il governo esamini per bene ogni banca, compri gli asset peggiori ai loro valori di mercato (che però non esistono) e assicuri gli asset ancora in salute in modo che non siano colpiti da eventuali catastrofi. Ma non è detto che, alla fine, non sia lo stato a dover gestire sia le “bad” sia le “good” bank: “La nazionalizzazione non è inevitabile come dicono molti – conclude Carr – ma può essere che la ‘bad bank' finisca con un ruolo dello stato molto più ampio nel settore”.

    La Svizzera si è già incamminata sulla strada creando una “bad bank” per Ubs. L'Amministrazione Obama potrebbe seguire l'esempio, è a questo che stanno lavorando gli uomini del presidente. Geithner ha spiegato durante le audizioni che la creazione della “bad bank” è difficile da “fare in modo corretto, ma può di certo aiutare a contrastare la crisi”. Secondo il Washington Post, Sheila Blair, che guida la Federal Deposit Insurance Corp, la Cassa depositi e prestiti americana, ha già espresso un parere favorevole all'ipotesi “bad bank” (originariamente il bailout era stato pensato in questi termini, poi nella pratica si è trasformato in un assegno in bianco per tutti i richiedenti). I costi, naturalmente, sono ancora da definire: il Washington Times, critico in partenza, parla di tre-quattromila miliardi di dollari.

    Ora la priorità di qui e di là dall'Atlantico è agire in fretta. I mercati sono sotto pressione da troppo tempo per poter reggere ancora mesi di incertezza. I governi devono scegliere: o la “bad bank” o la nazionalizzazione. All'inizio di questa crisi c'era anche un'altra ipotesi: far fallire gli istituti che non riuscivano più a stare sul mercato. Ma questa sorte è toccata soltanto a Lehman Brothers, l'ipotesi di bancarotta è oggi scomparsa, non si porta più né a Londra né a Washington.

    (Giovedì si è dimesso John Thain, ex ceo di Merrill Lynch, acquisita da Bank of America a settembre. La fusione è operativa dal primo gennaio, ma fin da subito ci sono stati problemi. Secondo il Financial Times, Merrill avrebbe portato in dote un buco di 29 miliardi di dollari. Nonostante la pessima performance, Thain ha voluto il suo bonus. Indiscrezioni dicono che sarebbero stati pagati i bonus prima della chiusura dell'accordo - foto Reuters)

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi