Lingotto bucato

Lodovico Festa

Il gruppo Espresso-Repubblica, al lavoro per Renato Soru, tratta con preoccupazione i passi di un asse Fiat-Chiamparino. Basta leggere le cattiverie che contro il gruppo torinese vengono scritte dalla penna velenosa di Rinaldo Gianola e da altri sull'Unità, quotidiano assai attento al duo Soru-De Benedetti.

    La Fiat vive una seconda grave crisi dopo la tremenda di inizi Duemila. Due gli elementi della nuova stretta: l'andamento tragico dell'auto in occidente e la crisi dei trattori sul malandato mercato americano, che colpisce una società Fiat (Cnh) per un po' in grado di compensare le difficoltà dell'auto. Dalla scorsa crisi la società del Lingotto era uscita all'attacco: colpendo in Mediobanca Vincenzo Maranghi che voleva distinguere i destini della banca milanese da quelli torinesi, sconfiggendo in Confindustria Antonio D'Amato che voleva emancipare l'associazione degli imprenditori dalla monarchia piemontese, inventando un presidente Fiat parapolitico come Luca Cordero di Montezemolo che iniziò a tramare con Pier Ferdinando Casini e finì alleato con Guglielmo Epifani e Romano Prodi per mettere le basi dell'effimero governo 2006-2008. Intanto Franzo Grande Stevens e Gianluigi Gabetti trovavano le vie (poi contestate giudiziariamente) per assicurare la presa della famiglia guidata da John Elkann sulla proprietà, tra vicende borsistiche non prive di travagli e complesse sistemazioni di eredità.

    Questo il contesto in cui Sergio Marchionne ha compiuto “miracoli”. Sfrondando linee di comando infeudate, utilizzando la stima di valenti fondi americani, organizzando un sistema di alleanze internazionali, mirando bene la produzione in un paese in sviluppo come il Brasile, cercando di dare razionalità a un core business con al centro l'eccellenza motoristica e una grande tradizione di design (anche se quello torinese ha avuto i suoi drammi in questi anni) ma debole industrialmente.
    La brutta stagione internazionale scuote il lavoro fatto in questi ultimi anni e impone di tornare a riflettere sulle prospettive.

    Marchionne ha detto con chiarezza la sua: il mercato internazionale che sarà tirato in misura crescente dai paesi emergenti avrà spazio per un numero ristretto di case automobilistiche, la società torinese non ha avvenire se non si integrerà con un altro player costituendo un soggetto globale sufficientemente forte per competere. Il manager del Lingotto si muove con una logica “moderna” anche su altri fronti: non chiede protezioni nazionali semmai interventi europei, propone una linea sindacale realistica e non più segnata dallo scambio consociativo con la Cgil, si disinteressa dei giochetti politici. Gli fa da sponda un altro emergente del mondo del Lingotto, Angelo Benessia, che sul fronte finanziario sta diventando il nuovo punto di riferimento Fiat dopo essere divenuto anche presidente della compagnia SanPaolo e quindi elemento di raccordo con Corrado Passera in IntesaSanpaolo.

    Però non c'è solo il fronte modernizzante: le antiche opzioni pervasive di politica, finanza, editoria e Confindustria, che si sono sempre ispirate al motto “Ciò che va bene per la Fiat va bene per l'Italia” (copiato da un  precedente “Ciò che va bene per la General Motors va bene per gli Stati Uniti”) scalpitano per cercare di riprodurre il modello della compagnia automobilistica privata ma sostenuta dalla mano pubblica. La prima battaglia è avvenuta in Confindustria, dove si è finito per sacrificare il povero Maurizio Beretta (e a esporre malamente imprenditori di prima fila in viale dell'Astronomia) nello sforzo di ottenere  aiuti immediati, trovando alleati nel governo ma lo sbarramento di Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi, nonché il dissenso di Emma Marcegaglia.

    Le manovre per ridare centralità confindustriale al Lingotto, coordinate dall'intelligente responsabile delle relazioni industriali Fiat, Paolo Rebaudengo, sono state articolate, cercando di spingere uomini Fiat da Federmeccanica all'Unione industriali di Napoli. Il cambio del direttore in viale Astronomia è stato determinato anche da questo lavorio. E ora, in situazione d'emergenza, si è mobilitato tutto il montezemolismo sparso in giro per l'Italia a sostenere la tesi che il nuovo direttore confindustriale, Giampaolo Galli, sarebbe ostile a Tremonti e Sacconi e amico della Cgil, l'alleato più prezioso dell'ala politicista della Fiat. Una diversione disperata. A cui si sommano manovrette politiche: come l'eccitazione rutelliana per la solita voce che Montezemolo scenderà in politica. Una bufala. Il presidente di Fiat e Ferrari è troppo innamorato del suo lavoro (e di qualche confort che questo consente) per buttarsi in un'attività brutale come la politica italiana.

    Certo non mancano alcune mosse, sapientemente distribuite a destra e sinistra: per esempio la spinta a presentarsi con i berlusconiani data a imprenditori legati al mondo Fiat come Giovanni Lettieri a Napoli e Alfredo Cazzola a Bologna è in parte montezemoliana. Tutto sommato, però, l'intensità delle operazioni non raggiunge il livello dei primi anni 2000, quando in campo c'era quel “duro” di Paolo Fresco e i due vecchi “giganti”, nonché un côté bancario di prima scelta. Alla fine il tentativo di restaurazione politicista si affloscerà. Magari, invece, resterà un po' di spazio per la politica e in questo senso qualche benevolenza di Marchionne per Sergio Chiamparino potrebbe pesare. Certo. Il colosso Fiat è assai provato ma anche solo il suo peso editoriale parla di una forza ancora consistente (basta vedere gli appelli a sostenere gli aiuti all'auto come vengono solidamente lanciati). Non per nulla il gruppo Espresso-Repubblica, al lavoro per Renato Soru, tratta con preoccupazione i passi di un asse Fiat-Chiamparino. Basta leggere le cattiverie che contro il gruppo torinese vengono scritte dalla penna velenosa di Rinaldo Gianola e da altri sull'Unità, quotidiano assai attento al duo Soru-De Benedetti.