Super Giulio contro super Mario

Perché tra Tremonti e Draghi c'è la guerra dei due mondi

Daniele Bellasio

Lo scontro globale tra finanza ed economia reale, tra banchieri e politici, un tempo alleati, fino allo scoppio della crisi, e ora interlocutori diffidenti, si riproduce nel piccolo del nostro paese negli attriti a suon di battute e silenzi tra il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, e il governatore della Banca centrale, Mario Draghi.

    Lo scontro globale tra finanza ed economia reale, tra banchieri e politici, un tempo alleati, fino allo scoppio della crisi, e ora interlocutori diffidenti gli uni degli altri, si riproduce nel piccolo del nostro paese negli attriti a suon di battute e silenzi tra il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, che vuole la politica superiore rispetto ai sistemi di potere, dunque in Italia soprattutto rispetto alle banche, e il governatore della Banca centrale, Mario Draghi, che si ritrova, per certi versi suo malgrado, nel ruolo di difensore di un mondo di macerie o quasi, quello dei banchieri globali e locali finiti nel vortice della crisi internazionale e, come ricasco, italiana.
    Per Tremonti una 500 Fiat è un bene moralmente migliore di un derivato di Goldman Sachs, Draghi invece a Goldman Sachs ci è stato come vicepresidente per tre anni. I due hanno in comune però la conoscenza dei meandri del dicastero di via XX settembre – dove l'uno è stato più volte ministro e l'altro direttore generale – e una certa predisposizione a non sentire né il caldo né il freddo. Draghi non mette mai il cappotto e pure Tremonti è difficile vederlo ipervestito, ma certo il governatore, riservatissimo tecnocrate, salutista e sportivo, non farebbe mai una conferenza stampa in maniche di camicia, come il più caloroso politico Tremonti, amante delle passeggiate solitarie sulle sue montagne. L'uno poi viene dalla Roma del Liceo Massimo, l'altro dalla nordica Sondrio e dalla placida Padanìa. Draghi è di cultura più anglosassone, con i suoi soggiorni washingtoniani e le sue relazioni inglesi; Tremonti, pur elogiando spesso Obama e aspettandosi molto dalla nuova Amministrazione americana, è più teutonico, con il suo recente asse intellettuale con Angela Merkel e la sua predilezione per Marx e i filosofi tedeschi.
    Sul Britannia, lo yacht che secondo la leggenda diede i natali al processo delle privatizzazioni italiane, c'erano entrambi, ma a Draghi fu rimproverato un ruolo di primo piano – tenne una relazione introduttiva – da chi in quella crociera individuò la “svendita” del patrimonio industriale italiano, mentre Tremonti poi disse solo che quel momento “simbolizzò il prezzo che il paese pagava tanto per rimodernarsi quanto per restare nel club” (dal libro di Elena Polidori “Via Nazionale”, Longanesi, 2006). E non è detto che nella parola “club” per il prof. non ci fosse anche una lieve sfumatura negativa.
    Ecco, subito iniziano le differenze. Economista Draghi, giurista il Tremonti del “silete economisti”. Per il ministro – vedi le cartolarizzazioni – la finanza, anche quella creativa, è cosa buona e giusta se serve allo sviluppo dell'economia reale e in poche parole alle scelte della politica. Per Draghi, invece, la stabilità finanziaria e le decisioni delle banche centrali contano più della politica. Dunque pesa di più il Financial Stability Forum, diretto da Draghi, del G8 dei ministri economici, presieduto l'anno prossimo da Tremonti? Vedremo. Insomma, si tratta di capire se nel capitalismo postmoderno la sorella maggiore, o meglio, il capofamiglia, sia l'economia reale o la finanza. Ma non c'è in ballo soltanto questo.

    Ventinove o no
    Silenzioso il governatore, il massimo di punzecchiatura che ha rivolto di recente alla politica (leggi anche Tremonti) è stato un appello a fare di più per la stabilizzazione del sistema del credito. Gran battutista il secondo: questa sua stagione al Tesoro si è aperta con la frecciata sull'aspirina contro la bronchite dei mercati fornita dal Financial Stability Forum, guidato da Draghi, ed è per ora culminata con l'ironia del “meno male che c'è il Financial Stability Forum”, guidato sempre da Draghi. Il governatore non è mai stato un ventinovista, nel senso che prima dell'Apocalisse e del piano Paulson (ministro con un passato in Goldman Sachs) tendeva a non enfatizzare i pericoli di un collasso, parlando piuttosto di turbolenze. C'è chi dice per errore (e sarebbe d'accordo perfino la regina Elisabetta che alla London School of Economics ha più o meno chiesto: “Sorry, ma perché nessuno di voi aveva previsto tutto ciò?”) e chi invece spiega la svista con la psico-economia: da operatore dell'alta finanza, più che della politica, Draghi pensava che fosse prioritario evitare il crollo della fiducia dei mercati, piuttosto che preparare l'economia e i governi al peggio. Il realista Tremonti, invece, nel suo libro “La paura e la speranza”, ma anche in articoli e volumi più antichi, aveva profetizzato il nuovo '29, formula di cui detiene, assieme al Corriere della Sera che così titolò una sua famosa intervista, il copyright. Inoltre, come spiega nel suo best-seller, per Tremonti i banchieri centrali (ma anche quelli privati) si sono resi responsabili dell'attuale crisi, con le loro iniezioni di liquidità, in poche parole con il loro doping, sotto forma di raffinate invenzioni diabolico-finanziarie, e non possono ora venire a fare la lezione alla politica.

    “E' tornato il tempo della politica”

    Tremonti lo scrive espressamente: “E' tornato anche per l'Europa il tempo della politica”. E la politica economica in Italia è lui. E' ovvio che il governatore, costretto anche dallo svuotamento a favore della Banca centrale europea dei suoi poteri a trovarsi nel ruolo di difensore del primato della tecnocrazia e del bancocentrismo italiano, non gradisca più di tanto, ma sia in fondo obbligato ad abbozzare di fronte allo strapotere del vittorioso (politicamente e analiticamente) Tremonti, trovandosi a giocare di sponda con i banchieri a lui più vicini, come Alessandro Profumo, con protagonisti della politica come Gianni Letta, con cui condivide il passaggio felpato in Goldman Sachs, e con gli economisti più anglosassoni, nel senso della carriera accademica, come Francesco Giavazzi. Tremonti invece si fida soprattutto di sé. Sa che le banche sono più deboli che in passato. Sa che quello del governatore ora è un incarico a tempo, e per la prima volta. E se qualcuno esorta troppo a difendere la stabilità del sistema bancario italiano può ricordare, come ha fatto nel suo libro, che da Cirio e Parmalat in poi è bene almeno un po' diffidare delle banche, insomma tenerle almeno un po' d'occhio. Dunque, ecco quello che può apparire come il cuore della contesa. Finanza ed economia reale si guardano in cagnesco, dandosi rispettivamente la colpa della crisi, quindi la politica ha una grande occasione – pensa e scrive Tremonti – di riprendere in mano il pallino della globalizzazione per evitare che i destini del mondo prossimo venturo siano decisi più dai mercati che dalle nazioni, dai popoli, dalla politica. Per scendere dal globale al locale, questo significa che, per il Tesoro, se le banche hanno bisogno di un aiuto da parte della politica, allora devono chiederlo espressamente e la politica deve potere, se non controllare, almeno dare un'occhiata nelle banche. Il mondo degli istituti di credito, in Italia e no, non vive certo un momento traquillo ma non vuole perdere troppe posizioni. Il Tesoro, semmai, oggi si fida un po' di più delle un tempo osteggiate Fondazioni e della Cassa depositi e prestiti, organismi per loro natura più sensibili alla politica. Per capire quanto delicato sia il momento per il mondo della finanza italiana, basta vedere come da noi i banchieri in forma si contino sulle dita di una mano, dopo il ridimensionamento, causa perdita della sponda prodiana e appannamento della stella Zaleski, di Giovanni Bazoli, l'uscita da Intesa Sanpaolo di Pietro Modiano, gli alti e i bassi di Alessandro Profumo e della sua Unicredit. La squadra dei banchieri, con qualche eccezione (leggi Corrado Passera e ovviamente Cesare Geronzi), sembra giocare sulla difensiva di fronte all'arrembante Tesoro. E alla ricerca di un Beckham, anche magari solo in affitto, alle banche non resta che il governatore, anche se, dipendesse da lui, Draghi non sceglierebbe per sé questo ruolo di pivot dei banchieri, preferendo quello di garante della stabilità economico-finanziaria, con i dovuti correttivi di regole e innovazioni, in cooperazione con le banche europee e internazionali. In questa guerra dei due mondi ci sono i poli mediani, uno può essere a Palazzo Chigi, l'altro è rappresentato dal banchiere più abile alla regia, anche politica, cioè Geronzi, lo stesso che anni fa – racconta Polidori – quando durante una gita in barca Draghi si fece male a un piede inciampando disse ai medici: “Curatelo come si deve, Mario deve camminare bene quando entrerà a Palazzo Koch”.