Lezioni Alitaliane

Carlo Stagnaro

Tutto quello che poteva andar male, nel caso Alitalia, lo ha fatto. Il processo di privatizzazione – iniziato alla fine del 2006 dal governo di Romano Prodi – rappresenta un caso scuola di fallimento della cultura e della pratica del mercato. La fantomatica cordata italiana, annunciata in campagna elettorale, ha faticato a coagularsi. Ora è finalmente comparsa.

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    Tutto quello che poteva andar male, nel caso Alitalia, lo ha fatto. Il processo di privatizzazione – iniziato alla fine del 2006 dal governo di Romano Prodi – rappresenta un caso scuola di fallimento della cultura e della pratica del mercato. L'origine stessa ne è viziata: il centrosinistra non ha mai accettato l'idea, da tutti ritenuta ovvia, di un'asta competitiva: ha prima compilato un bando pieno di paletti, cavilli e discrezionalità, poi ha proceduto, per mancanza di pretendenti credibili e graditi, alla trattativa in esclusiva con Air France.

    Il centrodestra ha fatto il suo ingresso a Palazzo Chigi quando il negoziato era prossimo alla chiusura, ma non ha saputo resistere alla tentazione populistica di buttare tutto all'aria (con mal di pancia, si dice, di Giulio Tremonti, che la grana l'avrebbe evitata volentieri). La fantomatica cordata italiana, annunciata in campagna elettorale, ha faticato a coagularsi. Ora è finalmente comparsa, a condizione però di una divisione della compagnia di bandiera in una “bad company” (da scaricare sulle spalle dei contribuenti) e in una nuova, dove finirà quel che resta di buono in Alitalia, soprattutto gli slot. L'operazione avrà un probabile effetto secondario, quello di evitare, tramite salvataggio preventivo, il flop di Air One.

    In tutto questo c'è un solo lato positivo: comunque vada, forse è finita. Ma appena si guarda al come e al cosa, quella dell'esecutivo appare un'operazione spregiudicata, che mantiene tutte le liability nell'orbita pubblica, e addirittura passa attraverso la sospensione delle norme antitrust per consentire un matrimonio che, se la politica della concorrenza ha un senso, non avrebbe dovuto essere celebrato. L'unione tra il primo e il secondo operatore nazionale dà vita a un monopolio sulla rotta più redditizia del paese, la Linate-Fiumicino. Fin dall'inizio, aggirare le regole è stato un leitmotiv. Prodi e il suo ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, avevano avviato il collocamento di Alitalia in parallelo al piano Bianchi sugli aeroporti, che avrebbe blindato il mercato nazionale attraverso una sorta di protezionismo aeroportuale che ostacolasse le compagnie low cost e scoraggiasse l'arrivo di nuovi concorrenti.

    Il risultato è stato un lungo periodo – circa un anno e mezzo – in cui tutti dicevano che Alitalia sarebbe stata ceduta ma nessuno sapeva in che modo e con quali criteri. Ciò ha prodotto incertezza e opacità, alimentando la convinzione che, in qualche modo, il gruppo sarebbe stato salvato, come sempre accaduto in precedenza. Lo si vede bene dall'andamento del titolo, che dalla fine del 2006 si è circa dimezzato, restando però significativamente al di sopra di quanto i potenziali acquirenti erano disposti a pagare. Carlo Toto, patron di Air One, aveva offerto appena un centesimo per azione, contro i dieci di Air France, mentre sul mercato il valore non è mai sceso sotto i 40 centesimi, se non occasionalmente, prima della sospensione delle contrattazioni a giugno.

    La vicenda è istruttiva anche per un altro motivo: mostra quanto sia difficile compiere scelte razionali all'interno di una compagnia controllata dallo stato. Alitalia ha chiuso tutti gli esercizi degli ultimi dieci anni in passivo, nonostante le tre ricapitalizzazioni del 2001, 2002 e 2005 e il prestito ponte di quest'anno. Le perdite hanno superato i 2,6 miliardi di euro, mentre i sussidi diretti sono stati di oltre due miliardi. Tra le ragioni del dissesto finanziario ci sono sia l'eccesso di organico che la rigidità nella gestione del personale, oltre alla scelta tutta politica del doppio hub. Hanno giocato un ruolo fondamentale nel trascinare il gruppo nel baratro tanto l'opposizione dei sindacati – che si sono ostinati a difendere lavoratori superprotetti e in gran parte improduttivi – quanto i vari governi troppo arrendevoli.

    Al puzzle vanno aggiunti altri due pezzi: i creditori, principalmente bancari (che dalla soluzione individuata dal Cav. sembrano uscire indenni) e i contribuenti, che finora sono stati la tasca profonda da cui pescare in caso di difficoltà. Ed è soprattutto per rispetto nei loro confronti, che, nella situazione in cui ci troviamo, non esistono alternative. Forse è finita davvero, anche se il ricollocamento dei dipendenti in esubero in qualche sottoscala ministeriale ha il sapore di una beffa. Speriamo almeno che questi siano gli ultimi danni causati dal bidone nazionale alitaliano.

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