McCain eroe non per caso

“L'uomo giusto per l'America, nata e unita in guerra”

Giulio Meotti

Un genuino eroe di guerra tra i repubblicani che proclamano il loro ardore per diventare comandanti supremi”. E' così che lo definisce il New York Times.

    Dal Foglio del 1 febbraio 2008

    Un genuino eroe di guerra tra i repubblicani che proclamano il loro ardore per diventare comandanti supremi”. E' così che lo definisce il New York Times. La grande cavalcata del redivivo e coriaceo John McCain, che non riesce ad alzare le braccia per via delle numerose fratture inflittegli dagli aguzzini comunisti, segna il ritorno della figura dell'eroe di guerra sulla scena politica americana. In McCain c'è il carattere dell'esercito, l'audacia in Normandia, il fiero coraggio di Iwo Jima, soprattutto la decenza e l'idealismo che hanno trasformato nemici in alleati. Come quando tornò a Hanoi, accolto come un gigante dai persecutori di un tempo. 
    La storia di questo lupo solitario inizia la mattina del 26 ottobre 1967 quando la contraerea vietcong abbatté il suo caccia che sorvolava il Vietnam settentrionale. Con sé McCain porta in politica la storia delle centinaia di migliaia di giovani americani partiti per i campi di battaglia. Figlio e nipote di militari, McCain rimase per cinque anni nelle mani dei torturatori di Hanoi, finché nel 1973 fu rilasciato e rientrò negli Stati Uniti. 
    I vietcong gli avevano offerto uno scambio con i vietnamiti detenuti dagli americani: McCain rifiutò perché il padre era ammiraglio e non voleva essere privilegiato. I comunisti gli disarticolarono le spalle con il supplizio della corda e gli misero davanti un pezzo di carta, “confessa i tuoi crimini di guerra e sei libero”. Lui rifiuta. Rifiuta per cinque anni e mezzo, finché, con la mano tremante, firma. Non se lo è mai perdonato. “Ho fallito, non sono stato abbastanza forte, dovevo resistere più a lungo”. Piace, McCain, peché gli eroi li sottrae alla dimensione mitica e retorica: “Vorrei poter dire che tornai come un perfetto individuo motivato solo dai più nobili principi ma non è vero. Ho avuto il privilegio di servire in compagnia di eroi, ho fallito in prigione”.
    Alla liberazione, ridotto a uno scheletro e con i capelli sbiancati, McCain si rivolse agli americani: “Vi dirò sempre la verità, qualunque sia”. In questa campagna elettorale ha scommesso tutto sulla coerenza, sul coraggio e le cicatrici della tortura. E' stato l'unico ad aver difeso apertamente la guerra in Iraq durante i comizi elettorali. Ha macinato un successo dietro l'altro raccontando grandi storie di soldati uccisi in battaglia. “Quando eravamo prigionieri a Hanoi, capitava di trovare a volte un pezzo di carota nella brodaglia del pasto. E qualche mio compagno gridava: ‘Ci rimandano a casa! E' finita la guerra'. Ma non era così, i viet ci hanno tenuto in catene per anni… all'Hotel Hanoi. Allora giurai: non mi lascerò andare all'entusiasmo finché non rivedrò un soldato americano in uniforme”. E' l'uomo della fermezza. Così lo racconta Robert Timberg in “John McCain: An American Odyssey”. Così McCain racconta se stesso in “Hard Call: The Art of Great Decisions”, di cui se ne aspetta l'uscita.  
    “Una civiltà è vinta o persa da coloro che si battono per proteggerla e giudichiamo se ne valga la pena in base alla gratitudine offerta ai propri soldati da coloro che sono stati salvati”. Così afferma il grande storico militare e dell'antica Grecia Victor Davis Hanson, il primo ad aver legato inscindibilmente la superiorità bellica occidentale non solo alla supremazia economica e tecnologica, ma soprattutto alla disponibilità a combattere per la libertà. Secondo Hanson, McCain è un grande amministratore di questa gratitudine per eroi e veterani. 
    Autori di classici della narrativa militare come “Massacri e cultura”, Hanson è stato uno degli intellettuali più ascoltati da Dick Cheney. “Paragonato all'appariscente Barack Obama e al manerioso John Edwards, John McCain sembra vecchio e stanco”, dice Hanson. “McCain è sopravvissuto a un melanoma maligno e spesso il suo volto sembra gonfio. Le sue braccia sono immobilizzate da anni di torture come prigioniero di guerra nelle mani dei comunisti nordvietnamiti”. McCain non è il folle Dottor Stranamore che dipinge la stampa europea, è l'unico eroe di guerra che non prende soldi dall'industria degli armamenti. Nel documentario “Why We Fight”, premiato al Sundance Film Festival, McCain sottoscrive i timori del presidente Eisenhower sul rischio che la politica di difesa finisse sotto il dominio del “complesso militare-industriale”. Hanson ci dice anche che “John McCain, a giudicare da tutte le critiche che provengono dalla base conservatrice, trascenderà gran parte della politica tradizionale e attirerà sostegno dall'arena politica in ogni direzione, proprio in virtù del suo record di guerra. Se dovesse essere nominato e vincere, a 72 anni non avrebbe ragione per triangolare o ipotecare il proprio futuro politico, sarebbe deciso, controverso e preoccupato dalla storia invece che dal momentaneo vantaggio politico. McCain è figlio di una lunga e gloriosa tradizione di ufficiali della marina. Proprio a causa del suo profondo legame con l'esercito, si ricorderà ciò che le nostre armate hanno portato al mondo negli ultimi settant'anni, per abbattere personaggi come Hitler, Mussolini, Tojo, i thugs sovietici, Milosevic, i Taliban e Saddam, che ne dicano la caricatura di Hollywood e le caffetterie europee”.
    Per spiegare la propria politica a favore della legalizzazione dell'immigrazione dei latinos, McCain portò ad esempio la storia di Riayen Tejada, padre di due bambine, immigrato a New York da Santo Domingo con il sogno di diventare cittadino americano e di fare il soldato nel corpo dei marine. Sottomessosi agli obblighi implicati dalla cittadinanza prima ancora di aver avuto accesso ai diritti che spettano a ogni americano, Tejada fu ucciso a Baghdad in un attentato mentre serviva come sergente benché ancora non cittadino. 
    “Venne con due sogni”, ha detto McCain. “Diventare americano e prestare servizio nei marine. Oggi ci sono combattenti in Iraq e Afghanistan, soldati i cui genitori non sono ancora cittadini americani, ma che hanno sognato che i loro figli potessero difendere quel sogno. Devono renderci orgogliosi di essere americani”. Come i due ispanici Robby Gonzales e Mario Fernandez, stanziati a Kirkuk. Mario, padre di tre bambini, ha detto: “Sono cresciuto in una piccola città del Texas occidentale. Scuola pubblica, college, facoltà di legge. Pensavo di dover dare qualcosa in cambio”. McCain è uno che preferirebbe perdere le elezioni piuttosto che lasciare Baghdad nelle mani di al Qaida. “Non lasceremo che gli Stati Uniti perdano questa guerra”, ha detto McCain. “Se perdessimo la guerra chi vincerebbe? Al Qaida? Raccontatelo ai 160 mila americani di stanza in Iraq”. 
    Quando il Congresso negò alle truppe il sostegno necessario per portare a termine la nuova missione, McCain andò dalla stampa infuriato. “I leader democratici sorridevano e festeggiavano mentre gli ultimi voti venivano conteggiati. Che cosa celebravano? La sconfitta? La resa? In Iraq soltanto i nostri nemici stavano brindando”. Durante la sua ultima visita in Iraq, McCain è andato a trovare alcuni soldati feriti ricoverati a Landsthul. Si è fermato nella stanza di Mark Robbin, che aveva subito un'imboscata a Baghdad giorni prima. “Poco dopo, mi hanno detto che si era svegliato e che voleva incontrarmi. Così sono ritornato da lui. Mi ha preso la mano e mi ha detto in un sussurro di non preoccuparmi, ‘possiamo vincere questa guerra, possiamo vincere'”.
    Secondo Hanson, “McCain è l'unico ad avere lo sguardo giusto sul sacrificio di coloro che hanno portato sicurezza agli Stati Uniti e libertà agli altri e che riposano nei cimiteri militari in tutto il mondo. La tradizione americana militare di McCain è l'opposto del militarismo. Gli ufficiali sono sottoposti al governo consensuale, non esiste un codice militare di giustizia che garantisce particolari diritti agli uomini in uniforme, la stampa libera monitora l'esercito. Non è così in Corea del nord, in Cina, in Iran e a Cuba. La televisione e le global news hanno cambiato la percezione delle perdite in combattimento. La Cnn avrebbe mostrato diversamente Iwo Jima, soltanto corpi distrutti nella spiaggia e niente alza bandiera sul monte Suribachi. Gli americani sono diventati suburbani, vogliamo vivere fino a 85 anni. La cultura popolare ci chiede di sembrare quarantenni quando ne abbiamo sessanta. Con queste aspettative di perfezione, ogni morte diventa una catastrofe nazionale come i disastri nelle battaglie di Antietam e Tarawa per ben più poveri americani”. 
    Dopo il Vietnam, per gli eroi di guerra niente è stato più come prima. “La percezione pubblica negli anni di Carter era che l'America aveva perso una guerra  per ragioni morali. La necessaria risposta non fu imparare come era iniziata, gestita e persa. Era meglio ignorare tutto ciò che avesse a che fare con quell'odioso affare. Il governo, l'esercito, il business e la religione secondo i nuovi roussoviani avevano cospirato per corrompere l'individuo naturalmente pacifico. Le opulente società occidentali si sono dimostrate riluttanti a usare la forza per prevenire violenze future più grandi. ‘La guerra è una cosa cattiva, ma non la più cattiva', diceva John Stuart Mill. ‘Lo stato morale decadente e degradato secondo cui niente vale una guerra però è peggio'. Abbiamo bisogno di maggiore umiltà e conoscenza del passato. Gli americani devono ricordare che c'è qualcosa di peggio della guerra. Stalin, Hitler e Mao hanno ucciso più lontano dai campi di battaglia di quanti ne siano morti nelle guerre mondiali. Cambogia, Bosnia e Ruanda sono state possibili perché non c'erano truppe vicino ai massacratori. Come è possibile che il paese che è scampato a Pearl Harbour, Monte Cassino, Anzio, Iwo Jima, Okinawa, Hue e Tet sia arrivato alla conclusione che l'Iraq, come ci ricordano i Democratici, è il ‘peggiore disastro dell'intera storia americana'?”. 
    McCain ha scritto che fra i suoi cinque eroi c'è Bernard Fall. E' lo studioso con l'elmetto e ineguagliato scrittore che morì saltando su una mina vietcong mentre andava a verificare le sue tesi sul campo, insieme agli americani. Fall entrò nel 1942 nella Resistenza francese, dove prese il posto del padre ucciso dai nazisti, mentre la madre sarà uccisa col gas in un campo di sterminio a est. Dopo la Seconda guerra mondiale Fall fu consulente per gli americani al processo di Norimberga. Definì “la rue sans joie”, la strada senza gioia, quella che i giovani americani dovevano attraversare per sconfiggere i nemici della libertà. Allora erano i nazisti in divisa. Oggi sono i terroristi incappucciati. Il generale George Patton diceva che “gli americani amano i vincitori e non tollerano i perdenti”. 
    “Il pubblico americano è diventato contrario all'Iraq non a causa di Cindy Sheehan e Michael Moore, ma perché ha sentito che le notizie dal campo di battaglia erano tutte pessime” prosegue Hanson. “La guerra riflette la cultura. L'esercito americano è profondamente integrato con la società americana. La cultura popolare mostra entusiasmo per tutto ciò che è militare. Ma un eroe non è contemplabile in questa cultura pacifista di ambiguità morale. Gli eroi nei nostri film di guerra sono persone ordinarie che odiano ciò che fanno e che sono costrette a farlo. Nella nostra società posteroica e postmoderna ci sono pochissime espressioni per la muscolarità e il sacrificio”. Hanson sostiene che parte del successo di McCain è dovuto al suo orgoglio pubblico sulla storia militare americana. “La storia militare ha lo scopo morale di educarci ai sacrifici del passato che hanno garantito la nostra libertà e sicurezza. Se non sapremmo niente di Shiloh, Belleau Wood, Tarawa e Chosun, le croci nei nostri cimiteri militari sarebbero soltanto pietre bianche. Gli Stati Uniti sono nati attraverso una guerra, si sono riuniti in guerra e sono stati salvati dalla distruzione da una guerra. Lo studio della guerra ci ricorda che siamo soltanto uomini”. Tornando al militarismo, Hanson spiega che questo è “il culto delle armi che trascende i campi di battaglia e diventa una ideologia che celebra il potere, la disciplina e la fanatica devozione a una causa. Era così per Sparta, la guardia pretoriana o le SS di Hitler. I colpi di stato militari anticostituzionali hanno portato Cesare a oltrepassare il Rubicone, Napoleone a mettere fine al direttorio, Hitler a distruggere la Repubblica di Weimar, i caudillo dell'America Latina, i colonnelli greci e i baathisti del medio oriente”. C'è un'altra tradizione meno conosciuta. “Può essere chiamata ‘liberalismo militare' e ha facilitato la nascita di governi liberi. Dopo la Seconda guerra mondiale, l'America ha mandato le truppe in Afghanistan, in Bosnia, in Cambogia, a Cuba, nella Repubblica dominicana, a Grenada e Haiti, in Iran e Iraq, in Korea e Kosovo, in Kuwait e Libano, in Libia, a Panama, in Serbia e Somalia e Vietnam, per combattere oligarchi, dittatori e autocrati. Dimentichiamo spesso che i mali del XIX e XX secolo, la schiavitù , il nazismo, il fascismo, il militarismo giapponese e lo stalinismo sovietico, non sono stati eliminati dalla forza e dalla minaccia della forza, ma dalla prospettiva di governi democraticamente militari. Gli eserciti americani hanno posto fine alle piantagioni schiaviste, ai campi di sterminio e al Gulag e hanno reso possibile una nuova Atlanta, una nuova Tokyo e una nuova Berlino. Anche l'esercito turco è il guardiano dei valori liberali in quel paese, è l'unica istituzione che resiste alla sharia e all'islamizzazione della cultura turca”.  
    Entrando nel cuore della Mesopotamia, gli eroi di McCain sono passati accanto a palazzi dai nomi altisonanti e mitici: Cunaxa con i 10.000 di Senofonte; Gau gamela, dove Alessandro devastò l'esercito imperiale persiano; e Carrae, dove il triumviro romano Crasso perse 45.000 uomini. “Gli americani hanno abbattuto il peggior dittatore del mondo e piantato i rudimenti della società liberale nel cuore del califfato, offrendo un'alternativa all'autocrazia e alla teocrazia. Non ho visto americani confusi con la loro tecnologia in una cultura antica e tribale. E' una caricatura. Ciò che mi ha colpito è il contrasto fra gli americani dei suburb e l'orrore delle condizioni in cui combattono, e la fiducia che hanno investito nelle forze della libertà e del pluralismo. C'è la possibilità che qualcosa di migliore prenda vita dove terroristi e teocrati un tempo massacravano”. 
    Davis Hanson consiglia a McCain, nel caso ricevesse l'investitura, di onorare la propria storia visitando un cimitero in Francia. “Ci sono 10.400 soldati americani che riposano nel cimitero della Seconda guerra mondiale a St. Avold, nella Lorena. Nessun presidente americano ha mai visitato le loro tombe. Qualcuno dovrebbe farlo. Le necropoli di migliaia di giovani in uniforme con le stelle di David lasciano il visitatore muto. Le iscrizioni chiedono di ricordare il sacrificio, il coraggio e la libertà. Le voci dei nostri morti ci mormorano”.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.