Sotto la colonna

Obama superchic arriva a Berlino da studente e riparte da maestro

Stefano Pistolini

"Non possiamo permetterci di restare divisi. Nessuna nazione, per quanto grande e potente, può vincere le sue sfide da sola”, ipse dixit nella tiepida serata d'estate berlinese Barack Obama, “orgoglioso cittadino degli Stati Uniti d'America e del mondo intero”.

    "Non possiamo permetterci di restare divisi. Nessuna nazione, per quanto grande e potente, può vincere le sue sfide da sola”, ipse dixit nella tiepida serata d'estate berlinese Barack Obama, “orgoglioso cittadino degli Stati Uniti d'America e del mondo intero”. Pare uno e trino l'Obama che traversa il mondo nella fatale settimana della sua ribalta internazionale. Il primo è l'“Obama che ascolta e impara”, andato in scena nello zigzag mediorientale, deciso e modesto, riconoscente verso chi ha fatto tanto, ma determinato a proseguire a modo suo, dopo aver visto coi propri occhi. Poi c'è il “jet-setter”, chic e volatile, very metropolitan e terribilmente affascinante, affabulatore, divo, leader e purosangue politico, avviato nel solco di coloro che a Berlino, Parigi e Londra vennero accolti come imperatori e sono oggi venerati nell'arca della memoria. Il terzo è l'Obama che scenderà dalla scaletta dell'aereo a Chicago al termine di questa ubriacante kermesse, che lo restituirà agli americani coi gradi guadagnati sul campo: basta con l'Obama inesperto e timido al cospetto dei grandi della Terra.

    Basta con l'Obama che ha bisogno della badante politica per dire cose sensate negli scenari di crisi. Spazio all'innovatore che persegue la visione ambiziosa. Ieri, a Berlino, il Barack camaleonte – tonico, presente, affilato, opportuno perfino oscillando ritualmente al Muro del Pianto, quando ancora non era sorto il sole di questa giornata (“Gerusalemme non è in vendita”, gli ha gridato un uomo dietro le transenne) –, quel Barack ha prodotto la metamorfosi più complessa: da apprendista stratega dei pasticci mediorientali, nel corso del volo antelucano tra Israele e Berlino s'è mutato nell'icona della nuova concezione americana di “politica contemporanea”, spericolato superamento che pretende di avere le ragioni per spiazzare noi decrepiti fondisti dei microspostamenti progressivi.

    Lo slancio richiesto all'Europa. Dunque Berlino. La tappa vissuta con più nervosismo dal team dei miracoli che ha teleguidato Barack fin qui. La Berlino ufficiale e sofisticata, capitale del radicalismo continentale, la cornice monumentale alla quale si è osato chiedere il massimo (on the toppermost of the poppermost) senza peraltro esserselo visto accordare – niente Porta di Brandeburgo finché non ha le chiavi della Casa Bianca, ha decretato Angela Merkel – e allora ci si è accontentati della wendersiana colonna della vittoria. La città l'ha accolto con entusiasmo, coi quotidiani che allegavano bandierine da sventolare al suo passaggio, sulla strada del più pubblicizzato discorso americano mai pronunciato in terra straniera. Alle 7 di mattino l'aereo di Barack è atterrato. A bordo il candidato s'era concesso ai reporter: “Quel posto è troppo grande per un mio discorso… vedrete non verrà così tanta gente”. Tutta scena.

    I berlinesi sono stati al gioco in centomila, non i soli 13 mila americani residenti, quanto gli entusiasti della nuova etica politica che sfocia nell'obamamania (gadget del giorno: la spilletta con le faccette di JFK e di BO). Due ore di anticipo per entrare e un diffuso inneggiare all'“altra America”, dizione caduta in disuso da un pezzo. E infine – mentre dei 45 minuti di conversazione con Angela Merkel è trapelato solo che sono stati “affettuosi e produttivi” – è arrivato il solenne silenzio emozionale nel quale hanno risuonato le parole di Obama: “I popoli del pianeta guardano a Berlino, dove un muro è stato abbattuto, dove un continente si è riunito e dove la storia ha provato che non esiste una sfida troppo grande per un mondo che sappia essere unito”.

    Secondo lui si tratta di ricucire il tessuto logorato dell'infinita relazione tra i due lembi dell'Atlantico. Di chiedere all'Europa slancio nella difesa dei propri principi, ad esempio facendo di più in Afghanistan. “Riunire”: torna l'antico adagio lincolniano caro a Obama. Che alza il tiro. Non s'accontenta di provare a essere il secondo americano capace di “riunire la casa nazionale divisa”. Dice che l'occidente può ritrovare quell'unione che in fondo non ha mai avuto, se non nelle utopie. Obama esagera sul pedale del visionario, sfiorando l'illusionismo? Il tempo lo dirà. Ma le reazioni americane alla sera di Berlino già suggeriranno se il suo volo continua indisturbato.