Perché il corpo di un soldato israeliano vale più di un terrorista vivo

Giulio Meotti

Quel fotogramma è come un lembo di vita postuma che arriva dall'inferno. Sono trascorsi vent'anni da quando un fotografo di Hezbollah scattò l'immagine di Ron Arad che Israele ha avuto dai terroristi libanese e che è rimasta davanti agli occhi di tutti mentre identificavano i corpi di Ehud Goldwasser e Eldad Regev.

    Quel fotogramma è come un lembo di vita postuma che arriva dall'inferno. Sono trascorsi vent'anni da quando un fotografo di Hezbollah scattò l'immagine di Ron Arad che Israele ha avuto dai terroristi libanese e che è rimasta davanti agli occhi di tutti mentre identificavano i corpi di Ehud Goldwasser e Eldad Regev. Emaciato, barba lunga e occhi smarriti, forse reduce da torture. I suoi occhi dicono tanto. Dicono del momento in cui l'aviere baciò la moglie e la figlia prima di partire per l'ultima missione. Dicono dei diciannove soldati mai rientrati dalla guerra del 1973. Dicono di Zachary Baumel, Yehuda Katz e Tzvi Feldman, ancora in Libano dal 1982. Dicono di Guy Hever, il soldato israeliano che nell'agosto del 1997 fu visto per l'ultima volta vicino al confine siriano. Scandaloso e incomprensibile appare Israele che baratta vite dedite alla morte per riavere salme di soldati caduti. Ma chi oggi accusa il governo di cedere al nemico, chi assume a priori la posizione intransigente dimentica lo spirito di quella democrazia combattente. Dimentica che in Israele ci sono 900 monumenti di guerra, uno ogni 17 caduti rispetto all'Europa che ne ha uno ogni 10 mila. Ma in Israele non ce n'è neanche uno al milite ignoto. Dimentica che ci sono tombe sul Monte Herzl prive dei corpi, ma con già il nome e la placca. In attesa che li riportino “a casa”. Dimentica il dramma di evacuare dalle colonie di Gaza le 48 tombe di israeliani. Nel 1985 Israele rilasciò 1.000 miliziani arabi in cambio di tre soldati rapiti da Hezbollah. Hezi Shai, prigioniero in Siria, ieri ha detto: “Un solo pensiero mi teneva in vita, la consapevolezza che il mio paese stava facendo di tutto pur di portarmi a casa e restituirmi alla mia famiglia e alla mia terra. Ci furono momenti in cui pensavo di togliermi la vita. I miei aguzzini avrebbero avuto un cadavere e non un soldato vivo. Ma sapevo che Israele avrebbe fatto di tutto per portare a casa anche solo il mio corpo, sapevo che non si sarebbe mai accontentato di dire ‘è disperso'”. Ha detto Shimon Peres che “Israele è giusta, e giustizia è il vero nome della vittoria. Abbiamo pagato un prezzo dolorosissimo per riportare a casa Ehud ed Eldad, perché avessero il riposo del guerriero nella loro casa, con ognuno di noi: i caduti e i vivi”. Per lo scrittore e reduce della guerra israeliana del 1948 Vittorio Dan Segre, due elementi spiegano lo scambio. “Da un lato la tradizione sionista, pioniera ed eroica per cui non si lasciano in mani nemiche i combattenti, vivi o morti”. C'è poi un fenomeno inconscio. “Gli ebrei non sono una religione o una nazione, ma una famiglia allargata. E' la reazione tipica di una famiglia.  Non si abbandonano i cari. Nel giudaismo anche quando è privo dell'anima il corpo è sacro. Spiega le proteste contro la costruzione di una strada quando si scopre una necropoli giudaica. Ci si ferma”. L'eroe del Kippur Avraham Rotem dice che “qui i soldati non combattono con una canzone sulle labbra e il patriottismo per cui ‘è bello morire per la patria'. Si battono con e per gli amici con i quali mangiano e dormono. Un soldato non ha ragione di rischiare la vita se avverte che i suoi compagni non farebbero lo stesso per lui”. Per Segre, Rotem ha ragione. “Se c'è stato uno sbaglio, è ammettere il principio ‘corpi per terroristi'. Ma non si sapeva se erano vivi o morti, Hezbollah non l'ha detto fino all'ultimo. Si è voluto alleviare il dolore. La superiorità civile dimostrata da Israele ha un'immensa forza. E' una società libera che combatte non per odio, ma per la difesa delle case. E' un grande esempio di civiltà, anche se non rientra nella Realpolitik. Ha ragione sia chi dice ‘non trattare' sia chi tratta. La tragedia e la grandezza dell'ebraismo è che non accetta assolutismi. Una storia hassidica bellissima racconta che la moglie del rabbino tratta male la domestica e lei protesta. Il rabbi le dice: ‘Hai ragione'. La moglie viene a sapere: ‘Non ho autorità su di lei?'. E il rabbino: ‘Hai ragione'. Un allievo dice: ‘Rabbi, non possono avere tutti ragione'. E lui: ‘Hai ragione anche te'”. Nella guerra del 1967 il rabbino dell'esercito Shlomo Goren attraversò le linee nemiche per chiedere indietro i corpi dei propri soldati. Un arabo a Betlemme gli disse: “Lei è pazzo, rischia la vita per delle ossa?”. Goren replicò: “E' grazie a quelle ossa se io sono vivo”. Il primo a dirlo fu un ebreo deportato a Babilonia quasi tremila anni fa.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.