La forza di Nietzsche

Vito Mancuso

La tesi interpretativa di fondo di “Nietzsche e il cristianesimo”, autore il grande filosofo tedesco Karl Jaspers, è che “la lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla sua propria essenza cristiana”, una tesi che condivido.

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    Presso la Christian Marinotti Edizioni è uscito quest'anno un libro importante, ancorché breve e di lettura scorrevole: titolo “Nietzsche e il cristianesimo”, autore il grande filosofo tedesco Karl Jaspers (1883-1969), traduttore e curatore dell'edizione italiana Giuseppe Dolei. Nel 1937 Jaspers, in quanto marito di un'ebrea, era stato allontanato dall'università di Heidelberg dove insegnava da oltre vent'anni prima Psicologia e poi Filosofia, e l'anno dopo tenne una conferenza a Hannover sul tema, particolarmente caldo per quel momento storico, del rapporto tra Nietzsche e il cristianesimo. La tesi interpretativa di fondo è che “la lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla sua propria essenza cristiana”, una tesi che condivido per quanto attiene alla genesi della filosofia di Nietzsche, e che però ne fa, proprio per questo, il nemico per eccellenza, colui che si impegnò nella “maledizione del cristianesimo” con la volontà esplicita di distruggerlo, perché “non esistono ai nostri occhi avversari più radicali dei teologi” (“Crepuscolo degli idoli”) e “l'istinto teologico è la forma propriamente sotterranea e più estesa di falsità che esista sulla terra. Quel che un teologo avverte come vero, non può non essere falso” (“L'Anticristo. Maledizione del cristianesimo”).

    Era da qualche tempo che volevo parlare di questo libro e ora mi si presenta l'occasione concreta a seguito di alcune reazioni al mio articolo di due settimane fa sul concetto di forza e i tre recenti eventi che ne sono stati ai miei occhi una palese epifania: 1) il ricevimento del presidente Bush da parte di Papa Benedetto XVI con onori mai tributati prima a nessun capo di stato; 2) la decisione della Cassazione sul caso Calipari-Lozano; 3) il voto del Senato sulla sospensione dei processi concernenti reati cosiddetti minori, sospensione di cui godrebbe anche l'attuale capo del governo. Partendo da questi tre eventi io mettevo a tema nel mio articolo la logica che muove la storia del mondo e cercavo di delineare quello che a mio avviso è l'atteggiamento spirituale più maturo di fronte a essa – anzi, non “di fronte”, ma “all'interno” di essa, perché già chi ritiene di poter collocare se stesso di fronte alla storia, su un punto di appoggio esterno rispetto a essa, sbaglia; certo, un punto esterno rispetto alla storia esiste, è quello dell'Eterno, ma lo si può attingere solo misticamente, uscendo dalla storia, per poi necessariamente abbandonarlo quando poi nella storia si ritorna per agire concretamente. Persino il Papa è costretto ad abbandonarlo. Anzi, a ben vedere il dramma spirituale del papato (non ci sono dubbi che il papato costituisca un lacerante dramma spirituale, basta aver studiato anche solo poche ore di storia della chiesa per essersene resi conto) sta tutto qui: nel dover parlare dell'Eterno, anzi nel voler rappresentare addirittura l'Eterno, in una struttura storicamente condizionata.

    All'interno del mondo cattolico il mio articolo ha ricevuto delle critiche sia da sinistra sia da destra. Si ritiene il mio pensiero, come ha scritto da destra don Gianni Baget Bozzo, “pericoloso”. Pericoloso perché? Lui non lo spiega, ma io intuisco che la pericolosità del mio articolo dipenderebbe dal fatto che parla della forza come di una realtà da cui non è dato uscire ma con cui fare i conti, a volte anche giungendo alla sottomissione. Io sostengo infatti che il mondo è governato dalla forza, da ciò che i greci chiamavano “ananche” e i latini “necessitas”, una concezione che, per alcuni cattolici, mi collocherebbe addirittura al di fuori del cristianesimo.
    E' esattamente questo il punto che mi ha fatto subito pensare a Nietzsche, così come lo leggo io e come l'ho visto magistralmente interpretato da Jaspers: al fatto cioè che Nietzsche accusa il cristianesimo di essere una menzogna. Per Nietzsche il cristianesimo è una menzogna non perché annunci la risurrezione o parli di miracoli che non sarebbero mai avvenuti, ma perché parla del mondo, di questo mondo sotto gli occhi di tutti, in modo sbagliato. Loda un mondo che non c'è, e non loda invece il mondo che c'è. Per questo il cristianesimo è la menzogna radicale, responsabile del nichilismo.

    Per Nietzsche, filologo di formazione, la prospettiva falsa con cui il cristianesimo guarda la realtà appare anzitutto dall'interpretazione cristiana della Bibbia ebraica, un furto più che un'interpretazione, perché fa dire alle scritture ebraiche cose che esse non hanno la minima intenzione di sostenere. Il fine dei cristiani infatti è “svellere il Vecchio Testamento dalle midolla degli ebrei” col risultato di una “inaudita farsa filologica” (“Aurora”, pag. 84). Il che costituisce un problema che ancora oggi l'esegesi e l'ermeneutica biblica sono ben lontane dall'aver risolto, e che si inquadra in quello più generale del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, se esso sia di relativa continuità (linea Carlo Maria Martini) oppure al contrario di relativa rottura (linea Joseph Ratzinger). Ma la falsità di cui Nietzsche accusa il cristianesimo riguarda ancor più l'incapacità di capire il mondo, come esso si muova e che cosa esso sia. Ora io chiedo a chi condivide la fede cristiana: di che mondo deve parlare la teologia? Di che mondo deve parlare il cristiano? Del mondo descritto dalla Bibbia e dalla dottrina, oppure di quello dell'esperienza quotidiana? Scriveva Karl Barth, il più influente teologo del Novecento, che “il pensiero, quando è autentico, è pensiero della vita, e perciò e in ciò è pensiero di Dio”. Il che significa che il pensiero, se non è pensiero della vita, non è neppure pensiero di Dio, non lo è perché è falso e solo la verità è pensiero di Dio. Chi intraprende il lavoro del pensare non si preoccupa se il suo pensiero possa in prima istanza risultare “pericoloso”, ma se sia o non sia “vero”, anche perché non c'è nulla di più pericoloso della falsità. La salvezza sta solo nella verità, nell'adeguazione alla terra ferma della realtà, e non c'è tensione etica più grande dell'amore per la verità e della volontà di aderire a essa, costi quel che costi. E' questa la roccia su cui costruire la casa resistente dell'etica, mettendo in pratica il primo decisivo comandamento, troppo spesso dimenticato, cioè l'amore per Dio (l'assioma del pensiero teologico è: Dio = Verità, Verità = Dio; da cui discende che il culto spirituale più gradito a Dio è l'onestà intellettuale).

    La teologia, e prima ancora il singolo cristiano, deve servire la verità chiamando le cose col proprio nome. E allora chiedo: lo sa o no Benedetto XVI (giustamente preoccupato per gli embrioni e i feti umani) di che cosa è responsabile Bush? Lo sa di quante vite adulte spezzate è responsabile, e quindi potenzialmente anche di quanti embrioni e quanti feti mai fatti venire alla luce, con una specie di gigantesca ecatombe di aborti preventivi? Benedetto XVI lo sa benissimo ovviamente, e non aspetta certo i moralisti di turno (me compreso) che glielo vadano a ricordare. Avrà digiunato anche lui, immagino, quel giorno che Giovanni Paolo II chiese di farlo a tutti i cattolici supplicando esplicitamente Dio (e implicitamente Bush) di evitare lo scoppio della guerra, anche se quel digiuno e quelle suppliche, come il più delle volte accade, non servirono a fermare il corso della storia. Quindi, sapendo tutto questo, Benedetto XVI prima va a visitare Bush alla Casa Bianca e non dice una sola parola sulla guerra in Iraq, poi lo riceve in Vaticano con il massimo degli onori. Che cosa devo pensare? Che ha dimenticato? Che approva? Che ne è complice magari, e lo incoraggia a iniziare la compagna d'Iran, dopo quella d'Iraq?

    Io preferisco pensare quello che ho scritto due settimane fa, cioè che anche il Papa è sottoposto a una logica più grande della sua volontà, quella della forza. Di essa nelle tragedie greche e prima ancora nell'Iliade si ha la più profonda esposizione, con quel disincanto amorevole che è il segno dell'anima liberata dalle ristrette visioni e passioni personali, un'anima che sa guardare dall'alto greci e troiani allo stesso modo, con lo stesso affetto, un'anima per la quale non ci sono più amici e nemici, buoni e cattivi, ma solo poveri mortali, tutti allo stesso modo mossi, agìti, trapassati, da potenze più grandi di loro. Descrivere il mondo per quello che è. E il mondo è forza. Solo così del resto prende senso, almeno ai miei occhi, la croce. Il punto infatti è che il cristiano, sapendo che il mondo è “questo mondo”, questo mondo lo ama e lo serve, disposto a sopportare nel suo corpo e nella sua anima l'imperio della forza per immettervi se stesso come seme di bene. “Resistenza e resa”, ha scritto un uomo che all'imperio della forza, quando oltrepassò il segno e divenne brutalità, si oppose, e per questo venne impiccato nel lager di Flossenbürg, nudo, la mattina presto del 6 aprile 1945 dietro ordine personale di Adolf Hitler. Resistenza e resa: non solo resistenza alla forza, né solo resa, ma resistenza e resa insieme, cioè sinistra e destra, perché la sinistra è la traduzione politica dell'atteggiamento spirituale di chi si oppone alla forza, la destra la traduzione dell'atteggiamento di chi vi si conforma. Scriveva Dietrich Bonhoeffer dal carcere di Tegel il 21 febbraio 1944: “Mi sono chiesto molte volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l'altrettanto necessaria resa davanti al destino”. Bonhoeffer diede la vita per resistere, e tuttavia vide anche la necessità della resa: “Dobbiamo affrontare decisamente il destino – trovo rilevante che questo concetto sia neutro – e sottometterci ad esso al momento opportuno”. Neutro è il destino (das Schicksal, in tedesco), come neutro è il Principio ordinatore alla guida della natura e della storia di cui parlo nei miei scritti, e di me è facile dire “non è più cristiano”, ma è difficile sostenerlo per Dietrich Bonhoeffer, o anche per Pavel Florenskij, matematico e teologo russo, che diceva le stesse cose prigioniero nel gulag staliniano dove venne fucilato l'8 dicembre 1937. Senza contare che Florenskij e Bonhoeffer non fanno che riecheggiare molti passi del Nuovo Testamento al riguardo, di capitale importanza per una vera teologia della storia.

    Ancora Bonhoeffer: “Dio non ci incontra solo nel tu, ma si manifesta anche nell'esso, e il mio problema in sostanza è come in questo esso (destino) possiamo trovare il tu”. Queste parole manifestano la perfetta maturità intellettuale e spirituale di chi vede la forza e, “dentro” di essa (non “di fronte”, tanto meno “di sopra”), cerca di ritrovare la provvidenza personale, il tu. Di fronte a un pensiero così, Nietzsche non avrebbe accusato il cristianesimo di menzogna. La forza del pensiero di Bonhoeffer consiste esattamente nell'aver portato in teologia le ragioni di Nietzsche. Il dramma, e però anche il bello della vita, è che nessuno sa a priori se nella circostanza concreta occorre resistere o arrendersi: “I limiti tra resistenza e resa non si possono determinare sul piano dei principi”. Ne viene che escludere a priori uno dei due atteggiamenti, incasellandosi in modo preconcetto o nella perenne resistenza-opposizione al mondo propria della sinistra, oppure nella perenne resa-conformazione della destra, significa mortificare la libertà e spegnere la profezia.

    Concludo su Nietzsche. Egli è di gran lunga il filosofo più letto, e i suoi libri si leggono perché danno il brivido di una scrittura potente, lontana dalle cerimonie accademiche e così vicina ai duelli della vita. Lo si legge a destra, e questo non è sorprendente essendo la destra la sua patria naturale; e lo si legge anche a sinistra, dove da alcuni tra i migliori intellettuali (Scalfari, Cacciari, Giorello) ho sentito parole di grande ammirazione per lui, spesso di convinta condivisione.
    Nietzsche è il padre spirituale della nostra epoca. Da qui il terribile compito della teologia, che consiste nel sostenere l'assalto di questo gigante dello spirito e della sua “maledizione”. Non lo si può fare chiudendosi in una autoreferenzialità che, per provare la verità delle proprie tesi, rimanda alla Bibbia e al Magistero, come se alla coscienza contemporanea importasse ancora qualcosa di questo polveroso principio d'autorità. Né lo si può fare ristabilendo il clima di rigida contrapposizione al mondo che fu proprio dell'epoca controriformistica. Questa lotta con chi minaccia le fondamenta stessa dell'etica e della religione deve essere condotta all'altezza spirituale dell'avversario, se vuole avere qualche speranza di successo. Da essa dipende il futuro morale e spirituale dell'occidente, e con esso del cristianesimo.

    L'ordine del giorno l'ha già scritto lui: “Compito futuro dei filosofi: il filosofo deve risolvere il problema del valore, deve determinare la gerarchia dei valori” (“Genealogia della morale”, pag. 44; corsivo di Nietzsche). Tutta la filosofia e la teologia si giocano qui. In particolare, il compito specifico della teologia non è informativo, ma performativo: come è fatto il mondo non tocca a lei dirlo, a lei tocca, all'interno di un mondo fatto così, suscitare negli uomini il desiderio di vivere nell'amore di Dio, all'insegna del bene e della giustizia. Il mondo è fatto così, è forza, e tu sei chiamato a immettervi la forma più alta e più pura della forza, che è l'amore. Il cristianesimo vivrà, se saprà rifondare il bene quale valore supremo perché dotato di maggiore “forza”. Il resto sono solo chiacchiere, sterili dispute teologiche che, extra moenia, non interessano più a nessuno.

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