Romanzo di borgata

Alfonso Berardinelli

Mentre leggo l'ultimo romanzo di Walter Siti, “Il contagio” (Mondadori, pp. 339, euro 18), scrivo qualche parola per mettere ordine nelle prime impressioni. Le parole sono: realismo, crudeltà, populismo, nichilismo. Ognuno di questi termini, lo so bene, richiederebbe chiarimenti complessi. Ma intanto, anche solo da un tale elenco, è possibile notare dissonanze che irriteranno non pochi lettori.

    Mentre leggo l'ultimo romanzo di Walter Siti, “Il contagio” (Mondadori, pp. 339, euro 18), scrivo qualche parola per mettere ordine nelle prime impressioni. Le parole sono: realismo, crudeltà, populismo, nichilismo. Ognuno di questi termini, lo so bene, richiederebbe chiarimenti complessi. Ma intanto, anche solo da un tale elenco, è possibile notare dissonanze che irriteranno non pochi lettori. Il realismo, anzitutto: categoria letteraria che fin dagli anni Sessanta sembra innominabile in Italia, diffamata come una ferrovecchio ottocentesco di cui per fortuna il romanzo del Novecento (spiegavano studiosi e critici) si è sbarazzato subito, grazie alle rivoluzioni epistemologiche e formali di Pirandello, Proust, Svevo, Joyce, Kafka, ecc. ecc., nonché ovviamente con il contributo decisivo di tutte le avanguardie.

    Realismo? Ma la realtà non esiste, è un'invenzione! Può essere una cosa e il suo contrario. E' il soggetto che crea l'oggetto con il suo punto di vista, le sue interpretazioni e i suoi interessi. Perciò abbasso Lukacs e la sua restaurazione conservatrice del modello narrativo ottocentesco con la sua presunta aspirazione alla Totalità. Il romanzo non è contenuto, è forma, è stile, è prospettiva parziale. E' a suo modo una favola che ubbidisce soltanto ai propri artifici e meccanismi costruttivi, fuori dei quali non c'è niente. Non c'è la società, non c'è il cosiddetto mondo reale. La realtà è solo un'idea repressiva e autoritaria. La modernità d'avanguardia ha insegnato una volta per tutte che la vera arte è antiautoritaria, soggettiva, anarchica, formalista, mistificatrice, deformante. La letteratura è menzogna, non è verità. Gli scrittori, anche i romanzieri, vogliono divertirsi, non si impegnano a conoscere le cose come sono, si interessano alle favole. La letteratura è fatta di parole. Il romanzo nasce con il Tristram Shandy di Sterne, non con il Robinson Crusoe di Defoe (ma non è assurda l'ipotesi, credo, che si tratti solo di due forme opposte di realismo). Anche il realista Balzac non era altro che un visionario. Flaubert è solo un maestro di stile. Dostoevskij interessa perché la struttura dei suoi romanzi è polifonica, non perché indaga la relazione fra delitti e castighi, non perché è un analista dell'assassinio filosofico e politico e del nichilismo…

    Ma sarà vero tutto questo? Sarà vero quello che è stato insegnato e predicato così a lungo nelle università postmoderne? Sì e no. Qui non faccio polemiche. Ogni tendenza letteraria ha immancabilmente le sue ragioni. Ma anche le sue esagerazioni. Certo che la letteratura è fatta di parole. Ma per dire che cosa? Evidentemente le parole non parlano solo di sé stesse, perlopiù parlano d'altro, soprattutto in generi letterari fortemente “mimetici” e rappresentativi come il romanzo. Può succedere che il linguaggio diventi ogni tanto protagonista. Ma si tratta di casi limite e resta da chiedersi comunque quale era il tema e l'oggetto del discorso. Nessuna letteratura, nessun genere letterario può vivere perpetuando e imitando i suoi casi limite. Non si può riprodurre ininterrottamente il modello Mallarmé, Kafka, Joyce, Borges, Beckett. La letteratura non vive di punti d'arrivo e di punti di non ritorno. Se avesse imitato solo gli innovatori rivoluzionari di primo novecento, il romanzo occidentale sarebbe morto negli anni Venti.

    Pensavo questo, leggendo “Il contagio” di Walter Siti. Ho pensato subito ai pregiudizi letterari con cui il libro si sarebbe scontrato. E mi veniva in mente che però in Siti non c'è solo realismo: c'è una riformulazione aggiornata dell'idea di realtà come artefatto sociale e mediatico, c'è nel suo modo di scrivere una furia distruttiva degli idoli e una manipolazione deformante, c'è una continua provocatoria crudeltà. Realismo e crudeltà. Sperimentalismo con l'uso di tecniche e forme apertamente mimetiche, tra Pasolini e Belli, tra Gadda e le “Autobiografie della leggera” di Danilo Montaldi, con l'uso frequente del discorso indiretto libero e dell'“erlebte Rede” (o discorso vissuto) di cui parlò Leo Spitzer analizzando lo stile di Verga.
    Dopotutto Walter Siti è un professore (in questo romanzo lo è come personaggio marginale e come commentatore) e queste cose le sa meglio di molti altri. Sa che cos'è il realismo e sa che cos'è avanguardia, avendo pubblicato negli anni Settanta un brillante saggio critico intitolato “Il realismo dell'avanguardia”.

    Siti è un professore orribilmente ambizioso, come possono esserlo solo le persone disperate e sofferenti che hanno patito il mondo e per rivalsa vorrebbero distruggerlo, dato che il mondo ha fatto il possibile per distruggere loro. Così il professore di teoria freudiana della letteratura, l'ex allievo di Francesco Orlando, è diventato uno scrittore infernale. Uno scrittore che doveva attraversare e raccontare il proprio inferno pensando, in questo (dove può arrivare l'ambizione!), di avere un predecessore in Dante e nel suo famoso realismo infernale, un realismo infestato da tutti i peccati e da tutti i diavoli: se è vero che il mondo reale e sociale, economico e sessuale è stato molto probabilmente lasciato da Dio nelle mani del demonio, perché facesse i suoi esperimenti con il genere umano e ne mettesse alla prova le capacità di resistenza, di inganno e di metamorfosi.

    Ma in questo scendere in basso, nei bassifondi, nelle discariche della società e della Storia, oltre che una crudeltà esibizionistica e voyeuristica, c'è anche un certo populismo. Chi socialmente sta in basso, chi subisce il massimo di pressione ambientale, chi vuole vivere come i ricchi pur non avendo soldi, chi è nato e vive nelle postmoderne (e post-pasoliniane) borgate, vede e vive cose altrove ignote, o poco visibili, o distanziate, filtrate, falsificate dall'agio economico e dalle ipocrisie della cultura. Populismo non significa necessariamente amore sentimentalistico per il Popolo: significa che dal punto di vista di chi sta in basso e fuori della “buona società”, in un paese periferico e in suppurazione come l'Italia, si capiscono più cose vere, si scopre più realtà che muovendosi tra Madison Square e Fifth Avenue, Place Vendôme e Hampstead.

    Più cose vere, più realtà: in sostanza e più precisamente, un reale nichilismo sociale, sul quale i filosofi scrivono i loro trattati filosofici ma da cui non immaginano di poter essere sfiorati. L'inferno nichilista, per loro, è una catena di concetti. Walter Siti, invece, che come Diogene cerca l'uomo fuori dalle sale da pranzo e dai conviti dei filosofi, dopo aver concluso la sua trilogia con “Troppi paradisi” (2006), si è messo a fare un'inchiesta sulle borgate romane, quelle che gli assessori all'urbanistica si sono sempre proposti di far sparire nel giro di pochi anni e che invece si riproducono trasformate e aggiornate. Io non credo che Diogene avesse ragione (la superbia cinica dei sadomasochisti!), né che dove c'è più materia, più determinismo sociale, più nichilismo aperto, inconsapevole e nudo, c'è anche più realtà. Neppure io (come tutti) so bene che cos'è la realtà.

    La realtà è troppe cose per essere definita a priori e concettualmente (ma il romanzo è nato per rimediare alla pochezza dei concetti). Dico solo che Siti, mettendosi a fare una seria e documentata inchiesta sociologica ha dato voce allo spirito del romanzo, ha dato spazio e voce a cose che letterariamente, in Italia, negli ultimi vent'anni erano state rimosse, ha finito per scrivere con “Il contagio” il suo romanzo più libero, meno ossessivo, più interessante per qualunque lettore, più scioccante e toccante, più tecnicamente inventivo e polifonico. “Il contagio” non è altro che un intreccio, un mosaico di storie vere, di registrazioni dal vivo. Molte storie: che si affollano soprattutto nella prima parte del libro, dando l'impressione che siano davvero troppe e che la materia accumulata e stipata abbia messo a rischio la costruzione formale e lo stile, e abbia creato vortici e mulinelli narrativi un po' frastornanti. Pagina per pagina il libro tiene benissimo, non ci si annoia quasi mai. A volte si può avere perfino l'impressione che ci siano troppe pagine da antologia.

    Ma certo è la mancanza di un personaggio forte e centrale il punto debole di questo romanzo rispetto a “Troppi paradisi”, dove dietro il polverio iridescente del gossip televisivo e la galleria degli escort a pagamento c'è sempre il personaggio-narratore, che alla fine incontra Marcello, angelo della prostituzione maschile e stella polare, ormai è chiaro, di tutta la narrativa di Siti. L'incontro del protagonista di nome Walter Siti con Marcello portava una felicità ambigua, ma pur sempre una felicità, e concludeva il lungo viaggio (ben tre romanzi) dentro il tunnel dell'autobiografia con queste affermazioni: “Ricordo la frase siderale di Beckett, in cui dice che il suo più grande terrore è sempre stato quello di ‘morire prima di essere nato'. Ora sono nato (…) Se in più di mille pagine ho prodotto un sosia, era perché io non c'ero, non ci volevo essere: adesso ci sono (…) Ora che Dio mi ama, non ho più bisogno di esibirmi. Sto meglio man mano che il mondo peggiora, pazienza (…) se avrò qualcosa da raccontare, non sarà su di me”.

    “Il contagio” ha in effetti una partenza completamente diversa. L'autobiografia è sparita. Ci sono le autobiografie accuratamente registrate degli abitanti di via Vermeer: fra questi a uno solo, Mauro, il più assetato di affermazione e di promozione, il più potenzialmente borghese, viene concesso di vivere un piccolo romanzo nel romanzo, una parabola del fallimento e dell'impossibilità di superare i propri originari limiti sociali, di uscire dalla borgata. Mauro non solo dimostra di non essere all'altezza dei compiti che gli vengono affidati da una losca organizzazione affaristica, ma scopre di essere diverso da quello che credeva e voleva. Negli Stati Uniti, dove è stato mandato, non è capace neppure di presentarsi agli appuntamenti fissati per le trattative previste. Fuori dal suo ambiente perde le antenne, non si orienta più, come un animale delocalizzato: “Vuole sparire, vuole la pace, espiare le strade sbagliate che ha preso; quel luogo estraneo è per lui come un tribunale sacro. Finché stava a Roma, emergere sembrava un obbligo: qui ha voglia di affondare, di dirsi la verità. Di mollare, finalmente; per lui la felicità coincide con la dipendenza” (p. 260). Dopo la resa, la sua diventa “una corsa verso il vuoto”. Nella sconfitta di Mauro c'è una verità che può rivelarsi chiaramente solo in uno come lui, che ha tentato e ha fallito, scoprendo così sé stesso: “I soldi sono importanti ma la libertà vale ancora di più. La libertà di poter dire chi se ne frega. Tutta questa smania di comandare, di emergere, prima con un commercio poi con quell'altro, per scoprire che i momenti migliori non costano niente” (p. 263). Mauro finisce in carcere, fatto fuori, tradito dall'organizzazione di un faccendiere internazionale che doveva lanciarlo, spingerlo in alto e che invece non ha potuto nemmeno usarlo, e lo ha buttato via come un uomo inutile, uno strumento che non funziona.

    Nell'incastro delle autobiografie di borgata che occupano quasi la metà del libro, il personaggio di Mauro si era segnalato “come il caso più anomalo”, come “un animale in gabbia che dà testate contro le sbarre”. Fino a quel momento l'inchiesta aveva creato una specie di romanzo corale, in cui il linguaggio-cultura, il neodialetto gergalizzato delle borgate romane “omologate” aveva più consistenza e realtà che non i singoli individui. Questa prima parte corale (“Il brusio”) potrebbe anche essere giudicata la più forte, la più semplice e riuscita del libro, una specie di epica di tutti coloro che sono ai margini della città e della società, ma che la rappresentano più esemplarmente di chiunque altro. E' una sequenza di racconti-testimonianza che fanno pensare a un Edgar Lee Masters, o meglio a un ipotetico Gioacchino Belli del Ventunesimo secolo.

    La seconda parte (“La deriva”) si apre con un capitolo di sintesi storico-sociologica ragionata, introdotta da un paio di icastiche epigrafi registrate dal vero:
    1) “sò tanti che vengono a fà ricerche sulle borgate, e io je dico sempre famo a cambio… si volete capì qualcosa delle borgate, ce venite a stà du' anni e io me trasferisco a casa vostra”. 2) “semo tutti onesti a responsabilità limitata… è come 'no yo-yo, un momento sei legale e un momento nun lo sei” (p. 163).
    Questa ipo-società, “quella poltiglia che normalmente si intende quando ora diciamo ‘borgata'” è nata dall'abusivismo edilizio, quello organizzato “in grande stile” dagli speculatori, ma soprattutto “il piccolo abusivismo dei poveri”. Qui la “definizione recente di città post-moderna si attaglia perfettamente al caos romano, promosso a ‘città diffusa' senza essere mai stato organizzazione civica” (p. 167). Una nuova antropologia è determinata dalla combinazione di due fattori solo in apparenza distanti: 1) l'uso della cocaina, “meravigliosa interprete della visione occidentale del mondo” e 2) “L'atavico individualismo romano, basato su scetticismo e dritteria, incapace di irreggimentarsi in strutture gerarchiche” e che “è venuto a combaciare con la più recente strategia di vendita della camorra e della ‘ndrangheta: differenziare, segmentare, suddividere le responsabilità e rendere sempre più difficoltosa per le forze dell'ordine la ricostruzione della piramide” (pp. 183-84).

    Come narratore di storie Siti è onnivoro. Gli piacciono la moltiplicazione, la proliferazione sorprendente e mostruosa, la sovrapposizione di una storia con un'altra. Ma dal punto di vista della mimèsi realistica una delle sue trovate tecniche più efficaci e redditizie è l'uso incidentale, parentetico e documentario del parlato e del dialogo, come se in lui il narratore continuasse a preferire quel tipico procedimento del critico e dello studioso che consiste nell'enunciare una definizione stilistica per esemplificarla subito dopo con un prelievo testuale. Siti non si appassiona al proprio stile. E' attratto dalle difficoltà di pensiero, dai grovigli intellettuali, ma soprattutto dalla materia, dalla fisicità, dall'individuazione sociologico-sessuale e linguistica dei personaggi e di qualunque figura umana. Lo stile che gli interessa di più è lo stile sociale, sono le modalità espressive che definiscono individui e ambienti: o meglio ambienti, più che individui. Lui stesso, mentre al telefono lo rimproveravo di scarsa selettività e di inzeppare troppe cose nei suoi libri (lo faceva anche come studioso di letteratura) mi ha suggerito che “deve” farlo per liberarsi del proprio personale modo di dire le cose. Questo modo non è per lui una meta, è piuttosto un limite e un ingombro.

    Lo stile infatti uccide il realismo, distrugge la polifonia. La forma letteraria per Siti deve essere modificata, invasa o perfino generata dall'abbondanza dei materiali raccolti e accumulati e dalla pluralità dei punti di vista, anche linguistici. La scrittura deve prendere la forma delle cose di cui parla e non apparire troppo perfetta in sé. Per questo i libri di Siti non hanno una costruzione equilibrata. Le strutture portanti sono sovraccariche e deformate dal peso dei materiali. Nell'insieme del libro, quello che funziona di più non sono né la struttura né lo stile (che diventa potente e saggistico-poetico, però, nelle ultime pagine): ciò che funziona sempre e comunque è la ruspa della ricerca conoscitiva e della rivelazione biografica e ambientale, è il gusto delle confessioni che permettono di vedere da vicino, scandalosamente, senza schermi, “le cose come sono”.

    Gli artifici realistici, i procedimenti e gli effetti di intensificazione realistica, con l'uso di diversi sottogeneri (diario, lettera, autocommento, intervista, studio dal vero, glossa) servono a costruire la realtà, a darle voce e corpo tridimensionale, a mettere in evidenza e a nudo ciò che inconfondibilmente caratterizza. Tutto ciò di cui Siti parla, tutto ciò che racconta sembra venire da un eccesso di conoscenza diretta, da amore e odio più che veri, da una sfida che la macchina del romanzo continua a lanciare a ogni altra forma di conoscenza obiettiva e di autocoscienza.

    Un'ultima osservazione. L'unità di un libro come “Il contagio” è dovuta senza dubbio a una scelta monotematica estrinseca (credo che sia stato commissionato dall'editore come ricerca sulle “borgate dopo Pasolini”): ma alla fine è un'unità ottenuta semplicemente incollando e montando una serie di strati narrativi e saggistici diversi, che contribuiscono tutti a mettere a fuoco sia l'oggetto di indagine che la vicenda conoscitiva. Le tre parti del libro, con i loro titoli (“Il brusio”, “La deriva”, “La verità”), vanno valutate anche distintamente. Le più riuscite, mi pare, sono la prima e la terza: quella più sociologico-corale e quella più autobiografico-saggistica. E' nella terza parte che con una crescente intensità, da monologo morale pubblico e spietato, si spreme tutto il significato dell'inchiesta e dei suoi perché. L'autore-personaggio torna in scena in una nuova incarnazione: come amante di Marcello, che lo ha guidato nelle borgate e che ormai lo ha abbandonato per un “rivale evidentemente preferito, se pure non amato”. E' appunto “L'addio”: “oltre i pianeti che crollano qualcosa si rinnoverà sempre, ed è la tua allegria. Non per me soltanto (anche se mi costa ammetterlo), per molti hai dato senso al mondo: molti si sono detti, quando tutto sembrava inutile e triste, ‘però c'è Marcello'. Non è poco, per un uomo. Addio Marcello, grazie: se ho smesso di sentirmi inferiore agli altri, lo devo a te…”.

    Nel finale le pagine da rileggere e le citazioni da fare sarebbero molte. Siti è un eccellente narratore e un originale saggista. Quando le due cose diventano una sola, si arriva al meglio. Quando si aggiunge anche il poeta che Siti, in versi, non è riuscito a essere, allora siamo agli epitaffi conclusivi difficili da dimenticare. Ne cito due: “Nella piazzetta triangolare in cui confluiscono via dell'Acqua Bullicante e via della Maranella gli emigrati bengalesi hanno eretto un altare alla dea Kali; c'è un canaletto collegato alla fogna per far defluire il sangue degli agnelli sgozzati (…) E lei, la dea dalle carni azzurre, regge col pugno sinistro un uomo decapitato mentre l'altra mano è sollevata in segno di pace. Regina della gloria, padrona inconcussa. Ascolta il fruscio delle galassie nelle marane inquinate, nelle cave di tufo dove si alternano laghetti sportivi e veleni: ‘come sta il mondo?'; ‘il vostro pianeta è un servizio, dove sono le pietanze?'. Ascolta se arriva il respiro degli altri dèi, anche loro insonni, molti che raspano nella spazzatura” (pp. 334-35).
    Ma l'ultimo capoverso traduce un beffardo terrore cosmico nel brivido di un uomo solo: “‘Ho teorizzato che tutto il mondo stava diventando gay; ora teorizzo che il mondo sta diventando un'immensa borgata; non sarà perché' pensa il vecchio camminando verso via Vermeer ‘mi è mancato il coraggio di ammettere che per me un borgataro gay era diventato tutto il mondo?' (…) Dopo il negozio di articoli sportivi si ferma a osservare una banda di ragazzetti che scassinano un distributore di profilattici. Un tredicenne rumeno è il più audace, si chiama Nicu; affronta il vecchio a muso duro, non raccoglie le giustificazioni: ‘vai vai' lo liquida, ‘ma vai a casa, va'… che ti sta cercando la morte e tu sei in giro'”.