Per fortuna (di Bush) in America la regola dei vent'anni dura di meno

Daniele Bellasio

Ci voleva un cowboy conservatore del Texas, profondo sud, per vedere un nero e una nera in successione al Dipartimento di stato e un attorney general ispanico.

    Dal Foglio del 24 gennaio 2008.

    Ci voleva un cowboy conservatore del Texas, profondo sud, per vedere un nero e una nera in successione al Dipartimento di stato e un attorney general ispanico. Dunque ora è normale e bella la storia di Barack Obama, l'afro, meno fortunata quella di Bill Richardson, l'ispanico, autorevole e furba quella di Hillary, la donna. Ci voleva un repubblicano figlio di una potente dinastia filopetrolifera per avere il miglior piano anti Aids e pro Africa, per scegliere di investire in misura pesante e convinta sui biodiesel. Ci voleva un conservatore compassionevole per garantire più servizi sanitari agli anziani. Ci voleva un presidente di origine non interventista per varare la più poderosa (e finora senza alternativa) dottrina di contrasto al terrore jihadista basata su democrazia e libertà come armi di stabilizzazione di massa. Ci voleva un difensore della vita fin dal concepimento – ricordate la foto di Bush con i bambini nati dal freddo? – per instillare remore alla tecno-scienza, non finanziandola con soldi pubblici, ma senza sovvertire la tradizionale autonomia del privato.

    Insomma, è già il momento dei bilanci per la presidenza di George W. Bush, tanto che Newsweek titola “The Party's Over”, riferendosi alle difficoltà dei repubblicani, e Michael Gerson, ex speechwriter dello stesso Bush, spiega come il Gop, a suo dire, abbia perso la via, la retta via. Perché? Perché i gruppi, tutti i gruppi della galassia repubblicana, dai più conservatori ai più liberal, si sono sentiti trascurati. Perché la presidenza Bush sarà segnata dalla controversa storia della liberazione dell'Iraq e, se l'Iraq va meglio, c'è sempre una bella paura di recessione da sbattere in faccia al candidato repubblicano. E poi, certo, come in tutte le presidenze, errori ci sono stati: la scelta di un giudice supremo poi ritirata, lo scioglimento dell'esercito iracheno e il conseguente caos, il ritardo, peraltro favorito dalla struttura federale degli Stati Uniti, negli aiuti dopo Katrina. Altri ancora.

    Ma il tema all'ordine del giorno è che l'eredità di Bush, dal punto di vista americano e repubblicano, è soprattutto quella di anni di crescita economica, dopo e nonostante l'11/9, di tagli fiscali record e di una grande apertura della mente del mondo conservatore. Magari qualcosa di simile accadesse ai liberal. Certo, fa bene David Brooks a raccontare la rivolta dei conservatori, dei gruppi che appunto si sono sentiti trascurati. Però proprio questa è stata la forza liberatoria del pensiero del Gop manifestata dalla presidenza Bush. Come ha raccontato Ryan Sager in “The Elephant in the Room: Evangelicals, Libertarians and the Battle to Control the Republican Party”, il centro repubblicano impersonato da Bush era il frutto del patto tra le due tradizionali anime conservatrici americane: quella dei libertari – contro le tasse, per il diritto a portare armi, liberal sui diritti civili – e quella degli evangelici. Ed è stato un bene che Bush non appartenesse totalmente a nessuna delle due anime, ma sapesse rappresentarle. Come in ogni compromesso, ognuno ha perso qualcosa: gli evangelici volevano di più in difesa della vita, della famiglia tradizionale; i libertari volevano meno stato e non di più. Ma nella convivenza si sviluppa l'apertura. Così oggi nel Gop corrono il mormone Romney, il predicatore Huckabee, il soldato McCain, il liberal Giuliani: nessuno è il nuovo repubblicano modello, ma tutti sono repubblicani da corsa. Così la Right Nation, anche se senza Bush non ha ancora un nuovo leader, è viva e lotta. I democratici invece hanno leader tosti, belle storie, ma sono ancora alla ricerca di una Nation cui aprire la mente e dare un'anima.
    Prima il tentativo mediatico era marchiare in negativo la presidenza Bush con l'Iraq, oggi (dopo Petraeus) ci si prova con la Borsa, per fortuna in America la regola dei vent'anni, per i ripensamenti, dura di meno.