Per liberarsi deve tornare com'era all'inizio. Primo di una serie di articoli

Obama si è fatto imprigionare dall'Obamamania

Paola Peduzzi

Sono tutti obamiani, a questo mondo. Alle feste che contano le signore ornano i loro abiti con qualche patacca obamiana, nelle foto spunta sempre una spilletta, un braccialetto, un fiocchetto con il sorriso folgorante del senatore nero.

    Sono tutti obamiani, a questo mondo. Alle feste che contano le signore ornano i loro abiti con qualche patacca obamiana, nelle foto spunta sempre una spilletta, un braccialetto, un fiocchetto con il sorriso folgorante del senatore nero. Non c'è blog, giornale, diario liberal che si rispetti che non sia voracemente obamiano. Le groupie sono ovunque, assatanate e aggressive. Se ti capita di essere un pochino scettico, se ti capita di pronunciare qualche sillaba di perplessità, ti ritrovi interrotto da occhioni sgranati che ti fissano increduli: “Non stai con Obama?”. Poi quasi piangono per la delusione: “Ecco, tu non credi nel futuro”. E' una condanna semplice e definitiva. Se non stai con Obama sei vecchio, arretrato, cinico, antico, insensibile, volgare, stupido e pure un po' fascista. Non si porta per nulla l'antiobamismo, è quanto di meno cool uno possa ostentare, conviene starsene zitti piuttosto che insinuare che con un candidato così si rischia di farsi abbagliare da un fuoco fatuo, e di risvegliarsi il 5 novembre con un vecchietto dal caratteraccio impossibile comodamente seduto nella stanza ovale della Casa Bianca.

    Certo, fosse soltanto una questione di presentabilità nei salotti, i clintoniani o chi per essi se ne sarebbero già fatti una ragione. Il problema è che nel gioco è rimasto impantanato lo stesso Obama. La croce di Obama è l'Obamamania. Quando diventi il candidato del futuro, quando incarni sogno-speranza-cambiamento, non puoi che finire in una gabbia. Gli obamiani hanno sequestrato Obama, l'hanno fatto diventare un loro prodotto, sono riusciti a dire – Michael Wolff su Vanity Fair – che il senatore dell'Illinois si è imposto come fenomeno su tutti, repubblicani e democratici, perché è l'unico a non essere “sessualmente disperato”, perché sua moglie Michelle lo farebbe a pezzi se lo scovasse con un'altra (“a good man is always a controlled man”, capito Hillary?). Se il pubblico arriva a garantire anche per la vivacità ormonale del suo prediletto, non c'è più nulla da fare. Obama ora non può più liberarsi. E gli obamiani sono molto esigenti, l'ortodossia liberal non ammette emancipazioni. Così il senatore dalle belle speranze è stato costretto a chiudere la concretezza nell'armadio, si è dotato di un guardaroba di camicie con le maniche arrotolate, si è consegnato alla folla, e la folla ha fatto di lui ciò che ha voluto. Da quel momento il candidato dei democratici ha detto tutto e il contrario di tutto – l'ha detto però talmente bene che quasi nessuno se n'è accorto –, si è fatto immortalare con le mani giunte e l'aureola sulla testa salvo poi litigare con Hillary su chi era più pro choice, ha parlato di dialogo con il nemico salvo poi dire che un bel bombardamento del Pakistan avrebbe salvato mondo e America, è diventato “il candidato di Hamas” salvo poi trasformarsi, davanti alla platea della più potente lobby ebraica, nel superamico di Israele. Se Obama fosse italiano – si perdoni il provincialismo – si direbbe che s'è ammalto di “maanchismo”. Sono stati i suoi fan a contagiarlo, lo hanno drogato di consenso (oltre che di soldi, il che conta).

    Gli esperti dicono che d'ora in avanti, a nomination conquistata, scopriremo un altro Obama, le primarie sono un affare ben diverso dalla gara presidenziale. In realtà basterebbe tornare indietro, al primo Obama, quello spuntato dal nulla alla convention del 2004 (scelto soltanto perché era nero), quello che divenne senatore dell'Illinois sgusciando fuori da una campagna elettorale marcata da scandali pazzeschi (orditi, a suo uso e consumo, da quel genio del male che gli fa da guru, David Axelrod), quello che recitava la parte del politico per caso e già pensava alla corsa maledetta alla Casa Bianca. L'Obamamania non aveva ancora fatto i suoi danni, lui era un outsider vero. Oggi invece pare già establishment, anzi, un establishment a metà. Gli mancano il cinismo, la sfrontatezza, la competenza dell'establishment.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi