Il bello dei democratici

Stefano Pistolini

Ho visto e ascoltato Barack Obama, l'astro accecante destinato a illuminare la politica democratica americana dei prossimi anni. E mi sono fatto un'idea su di lui, di cui vi dirò. Non è stato facile, per niente. Per quanto Obama giochi a fare il novellino, il neoeletto che ha tutto da imparare, quello che al Senato di Washington dove l'ha spedito l'impressionante maggioranza dell'Illinois (un nero – solo il quinto nella storia a sedere su quegli scranni, mentre nel frattempo Bush prendeva a sberle Kerry) non sa neppure trovare la strada del bagno.

    Dal Foglio del 12 febbraio 2005

    Ho visto e ascoltato Barack Obama, l'astro accecante destinato a illuminare la politica democratica americana dei prossimi anni. E mi sono fatto un'idea su di lui, di cui vi dirò. Non è stato facile, per niente. Per quanto Obama giochi a fare il novellino, il neoeletto che ha tutto da imparare, quello che al Senato di Washington dove l'ha spedito l'impressionante maggioranza dell'Illinois (un nero – solo il quinto nella storia a sedere su quegli scranni, mentre nel frattempo Bush prendeva a sberle Kerry) non sa neppure trovare la strada del bagno.
    Barack è un uomo con un progetto nel cuore, che per adesso non ha nessuna intenzione di condividere con chi lo circonda, a cominciare dai giornalisti. E' una pazza idea, che verrà confessata solo un minuto prima d'essere ufficializzata. Perché una delle prime conclusioni raggiunte sulle tracce di Obama, è che lui si muove secondo una strategia generale precisa, che consiste nel volere avere sempre il coltello dalla parte del manico. E perciò, per fare un esempio, adesso che ha vinto l'elezione di Stato e vuole stare alla larga dalle magre, s'è imposto una regola che se non suona completamente sincera ha il pregio d'essere ferrea: tutti i suoi interessi sono, come ripete senza espressione il suo ufficio stampa, “local”. Che si traduce nel fatto che non ne vuol sapere di perdere una sola della simpatie che ha raccolto nel suo Stato, e per fare questo intende dimostrare con tutte le forze e con ogni minuto del suo tempo la sua dedizione alla difesa degli interessi di chi l'ha prescelto come rappresentante presso il governo di Washington. E, altrettanto, vuole sottolineare che lui adesso non vuole neppure prendere in considerazione qualsiasi possibile distrazione – tipo delle interviste con la stampa che non sia locale, con le televisioni che non siano locali, con assemblee in cui non si raccolgano altro che cittadini dell'Illinois. Lui dice no a tutti coloro che non siano quelli aventi diritto a chiedergli conto dei punti specifici e fattuali del programma – un programma assai locale, assai pragmatico, tutto Salute, Assistenza, Scuole, Tasse e Finanaziamenti – lo stesso sul quale è stato eletto da una cittadinanza che ha l'etichetta di una delle cittadinanze più pragmatiche del Paese. Su tutto il resto Obama non si espone, si schermisce, dice che non ha ancora titolo per parlare e che deve pensarci e che per ora non ha mai il tempo di farsi un'idea definitiva sulle questioni primarie, tanto più su quelle sovranazionali. Tipetto alqualnto populista, osserverete. Sicuramente. Ma anche uno con una strategia d'acciaio svedese, dalla quale non recede mai e che non ammette debolezze. Perciò, più che mai, uno con un piano in testa, a lungo termine, lungimirante, teso come una corda di violino nell'osservarlo. Del resto solo pochi giorni fa a Washington, Barack ha giocato questa parte, quando da neo eletto, chiamato a esprimersi da un complimentoso presidente Bush, ha fatto il suo bravo passo indietro, con bella professione di modestia, per dire che lui, no, davvero, non se la sentiva d'occupare il tempo di quell'importante incontro d'inizio-lavori, sottraendolo a chi aveva più esperienza e cose da dire di quante ne avesse lui, il novellino. Tutti hanno annuito compiti, ma chissà quanti, tra avversari e alleati, tra i denti si son detti: “Benvenuto, figlio di puttana. Ho la sensazione che ci darai filo da torcere!”. Per fortuna ci sono sempre diverse strade per affrontare una salita. E perciò, dal momento che il personaggio-Obama c'interessa, perché la sensazione della sua forza è netta, dirompente, e dal momento che è chiaro che lui intende esporsi a cicli temporali conseguenti, senza bruciarsi, venendo allo scoperto poco alla volta invece d'andare all'assalto come un soldatino coraggioso, abbiamo fatto l'unica cosa che restava da fare. Ci siamo messi sulle sue tracce. Laddove mette in scena le sue rappresentazioni che sfiorano il delirio dei revival religioso. Con la convinzione che, per quanto i temi non fossero quelli che siamo abituati a sentir risuonare dalla nostra parte dell'oceano, un'idea sulla caratura della sua personalità e sul possibile futuro effetto globale ce la saremo fatta. Ed è andata così.

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    Qualcosa va detta, oltre che su Obama, anche sulla gente che l'ha scelto e – perché no – su chi non l'ha votato ma sente inspiegabilmente la tentazione di relazionarsi con lui, di affrontarlo dialetticamente, di ammettere la sua esistenza, il suo peso, il suo stile ormai ufficializzato sulla scena politica americana. Perché cosa sta facendo in questi giorni il neo-eletto senatore Barack Obama? Sta girando a tappeto, in una marcia forzata degna di un rush elettorale più che del defatigante periodo che segue un'elezione vinta, tutto lo Stato che l'ha scelto. In un certo senso sta sferrando la martellata definitiva ai paletti, aguzzi ma non troppo profondi, che ne hanno permesso la velocissima ascesa alla massima ribalta nazionale, con tanti riflessi già proiettati su quella internazionale. In un tour de force condiviso con un'agile truppa d'assalto – uno staff di non più di dieci persone, incluse le guardie del corpo, invisibili, gentili, meno muscolose della media – sta ritraversando in una specie di trionfo napoleonico quello Stato strano che è l'Illinois, fatto di una città modernissima come Chicago – contraddittoria e vivace, condivisa da una middle class evoluta, acculturata e dinamica e da un ghetto nero dove la consapevolezza e la voglia di cambiare sono ben sopra la media – e poi di una sterminata distesa agricola, piatta, uniforme, benestante, guardinga, per molti versi sospettosa – ma non al punto da non farsi stuzzicare dall'idea, per una volta, di votare quel nero così brillante, così diverso dalla media dei soliti politicanti, così abile nella retorica, nell'oratoria, così bello in tv, con quel sorriso che fa venire in mente i neri che a Hollywood hanno avuto la statura (e la coscienza) dei protagonisti, dal Sidney Poitier anni 70 al Denzel Washington anni 90. Con in più il fattore straniante e modernissimo d'essere un mezzo sangue, con tanto di mamma bianca come il latte, proveniente dal Kentucky.
    Insomma Barack torna da dove è partito, dai suoi elettori. Torna per dire: vedete che non mi sono scordato di voi? Vedete che non mi sono montato la testa? Vedete che sono uno che mantiene le promesse? E la risposta da parte della gente che lo aspetta è formidabile. Non capita spesso di vedere accogliere un politico, neppure uno di primissimo piano, con un simile entusiasmo, con un trasporto e una partecipazione che rasenta l'isteria – neppure si trattasse di JFK o di Elvis. E invece è quello che capita puntualmente a Barack nel suo giro di consolidamento delle simpatie a spasso per lo Stato, coi cronisti che silenziosamente registrano e rimandano alla base: “Attenzione: l'effetto-Barack è straordinario. Quest'uomo sta traversando il cuore dell'America con l'effetto d'un Messia. Nero. E per ora non supera i confini dello Stato, perché se la cosa si ripetesse al di fuori, sarebbe il segno di un'incredibile emanazione di emozioni popolari”.
    Noi, dal momento che Obama fa sapere di non poter concedere neppure un minuto a un'informazione che non sia “local”, abbiamo viaggiato duecento chilometri a sud di Chicago e siamo andati ad aspettarlo nel mezzo del nulla, in un posto del quale ci era familiare solo il nome: Woodstock. Niente a che vedere con gli ultimi fuochi Sixties, che avevano luogo mille chilometri più a est, nello Stato di New York. Questa Woodstock è un posto qualsiasi, talmente qualsiasi da avere la sua brava piazza quadrata col giardinetto al centro e al centro del giardinetto il gazebo sotto il quale, nelle sere d'estate suona la banda dei veterani di tutte le guerre. Woodstock è civile, benestante, ha dato i natali a Chester Gould, l'inventore del fumetto di Dick Tracy (a cui dedica perfino un mini-museo, sempre sulla piazza), e ha perfino una specie di caricatura di Teatro dell'Opera. Un piccolo edificio tirato a lucido, il giorno in cui ci arriviamo noi, perché è lì che il neo-senatore Obama verrà a mantenere la promessa fatta tante volte nel corso della campagna elettorale: “Non mi dimenticherò di voi. Se mi mandate a Washington vi rappresenterò e rappresenterò i vostri interessi”.

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    L'aria che tira attorno all'ora di pranzo, in coincidenza con l'annunciato arrivo di Barack da un'altra delle tappe del suo raid-Illinois, è elettrica. La sensazione è che la gente più di volerlo ascoltare, più di volergli porre delle domande, voglia semplicemente vederlo, condividere con lui qualche metro cubo di ossigeno, per poi poter dire “c'ero anch'io quel giorno”. E' un fenomeno che capita di rado in politica e che molto ha a che vedere con la cultura popolare: si chiama stardom, divismo, meglio ancora divismo mediatico, ovvero perfetta confluenza spazio-temporale tra un personaggio e una platea che scopre d'avere desiderio e bisogno di lui, al punto di non poterne fare a meno, di volerne sempre di più, in modo irrazionale ed emotivo. Direte: sono cascami di un'America marginale, a corto di sicurezze, anzi corrosa dall'insicurezza. Potreste avere ragione, ma in cio a cui s'assiste tra le centinaia di persone che aspettano Barack sulle scale di questo teatro dell'Opera di Cartoonia, ha anche un certo non so che di gioioso, di retrò, qualcosa che appartiene a un passato pre-mediatico, quando la tv ancora non sapeva saziare tutte le curiosità di tutti. C'è un desiderio d'interscambio d'amore con un uomo a cui si sente il bisogno di far sapere che noi si esiste, lo si sostiene, siamo pronti alla sua chiamata. Perché – i sostenitori lo giurano, gli avversari lo ammettono – Barack non tradisce, non può tradire, è finalmente il prototipo del politico nuovo. E la conferma non può essere altro che il fatto che all'una e mezza precisa, senza neppure un secondo di ritardo, Obama sbarca a Woodstock, perché lui è uno preciso, anche se chissà se i limiti di velocità dello Stato l'ha rispettati tutti. Arriva, scende dalla macchina – una berlina, mica una limousine – s'allaccia il doppiopetto blu e già sorride di quel sorriso che non conosce cedimenti e irrigidimenti. Ed ecco il cinico cronista italiano a chiedersi se una discesa così spettacolare, intensa e riuscita, non l'abbia studiata nel cortile di casa, con la moglie a dargli i consigli, con lo specchio a insegnargli come non sbagliare, in quella lunga, sommersa preparazione che deve aver preceduto l'esplosione della stella nuova. E loro, i woodstockiani, l'amano tutti, l'applaudono sulle scale, provano a sfiorargli la manona che generosamente distribuisce e che per loro sarà l'ultimo contatto con Barack, perché la sala è già gremita, chi è fuori ci resta, gli usceri del teatro sono inflessibili, e a Woodstock mica ci sono i megaschermi.
    Poi Barack entra. Ci dicono che a fine incontro con la cittadinanza risponderà alle risposte dei cronisti, solo quelli locali naturalmente. Al che ci guardano e chiedono con aria sospettosa, se noi siamo stampa locale. Ed ecco la faccia tosta di dire, che sì certo, in fondo una bugia pietosa val bene lo sforzo d'essere arrivati fin quaggiù dove, dimenticavamo di dirvelo, la neve ricopre tutto, giardini-gazebo-teatro e scalinata, e il termometro non ripassa lo zero da Natale.
    Dentro tira l'aria delle grandi occasioni, e i ritagli-stampa della giornata finiranno nella bacheca della storia del teatro di Woodstock. Di scaldare la sala, seppure ce ne fosse il bisogno, s'occupano un paio di politici davvero locali, un tipo brizzolato sovrappeso – che più tardi Obama tratterà con un paternalismo sfottente che avrebbe fatto incazzare chiunque, ma che qui invece è salutato da halleluia d'entusiasmo, perché il divario tra il rustico della base e il nero charmant è talmente evidente da diventare patetico, e poi una piacente quarantenne, una tutta sostanza, numeri e frasi telegrafiche, che regge discretamente fino al momento in cui Barack non fa capolino dalle quinte, perché a quel momento pure lei va in deliquio, molla il microfono incrocia le mani nel gesto di preghiera, adesso non ha neppure più il coraggio di parlare, adesso tocca a Obama, è Obama-time e che il rituale abbia inizio.

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    Finalmente il Senatore del 70 per cento occupa il suo scranno, spara una dozzina di accecanti sorrisi a tutte le latitudini della sala e proferisce una prima frase sulla quale il solito ascoltatore distaccato si propone di riflettere più tardi: “Buongiorno. Eccomi di nuovo a Woodstock come promesso. Non ho molto da dire che non v'abbia già detto, prima di avervi evidentemente convinto fino in fondo” (risata compiacente della sala). “E perciò oggi dirò pochissimo, perché il tempo che ho è limitato e voglio siate voi a parlare. Stavolta sono qui per rispondere non per chiedere” (brusio d'approvazione). “Per cui chiedo al mio assistente che vedo lì nell'angolo, sì proprio quello con l'aria preoccupata” (risata), “Phil quanto tempo abbiamo? 45 minuti? Bene io parlerò per 5 e per 40 risponderò alle vostre domande. Cercate d'essere brevi perché io prometto che sarò conciso e sostanziale, in modo da rispondere al maggior numero possibile di questioni. E prima di cominciare faccio una promessa: se oggi vado di fretta, potete essere certi che nel corso del mio mandato mi rivedrete talmente tante volte da dire: ‘Cosa? Ancora Obama? Ma perché non se ne resta a casa dalla famiglia? Cosa vuole ancora da noi?' Ma che volete farci? Ormai mi avete scelto e per i prossimi sei anni mi dovrete sopportare. Vi garantisco che non elemosinerò inviti a pranzo”. Risata collettiva e gridolini di giubilo. (Nota a margine a uso dei nostri politici: con un incipit di questo genere si conquista la platea, almeno a Woodstock. Tutti si fregano le mani e si sentono parti in causa. Meditate, se siete del mestiere, prima di esporre la maschera truce. Guardatevi le foto dei contagiosi sorrisi di Obama e rileggetevi le cifre delle sue elezioni. Alla faccia della cosmetica politica contemporanea).
    Dunque Barack fa il suo discorsetto, nulla di nuovo, niente di eccezionale e tanto meno di provocatorio, solita spremuta di difesa dei deboli, salvaguardia dei medi, ammiccamenti ai potenti – del luogo s'intende. Il messaggio condiviso è: “Non so a Washington, ma qui pensiamo di avere dei diritti, di sapere ancora bene cosa significhi essere americani. E vogliamo che ciò venga rispettato fino in fondo”. In pratica: “vogliamo che Washington continui a permetterci di essere veri americani, per quanto si faccia distrarre dai suoi discutibili obbiettivi internazionali”. Sull'Iraq Obama glissa, più o meno quanto lo faceva Kerry a suo tempo, ma con più sagacia. Lui non ha nessun obbligo di risalire all'origine del problema, all'attacco all'America e all'avvento della War on Terror. Lui può sfruttare fino in fondo il suo status di novellino, semplicemente dichiarando il proprio punto di vista sullo stato delle cose al presente: “Ormai siamo là, ci siamo dentro con tutte le scarpe, stiamo facendo qualcosa d'importante per salvaguardare i diritti di un popolo, ma la cosa costa troppo caro in termini economici e in termini di vite umane. Però il lavoro va finito, bene e nel tempo più breve possibile. Perché (ecco la variazione che tutti attendono a gloria) questa guerra sta spostando il fuoco dell'interesse nazionale su una sfera internazionale della quale voi, qui, a Woodstock, sentite l'obbligo morale, ma sentite pure l'eco troppo lontano. Perché la vostra vita è qui e adesso. E qui e adesso sono tante le cose che non funzionano, anzi che peggiorano e attorno alle quali Washington fa orecchie da mercante, con la scusa d'avere altro da fare a Baghdad. Bene: io andrò nella capitale con la missione di riportare gli interessi dei cittadini dell'Illinois, tutti, a cominciare dai più bisognosi, al centro dell'agenda del governo e dell'amministrazione. E vi garantisco che spenderò ogni minuto del mio tempo per ottenere i massimi risultati possibili. Ma adesso basta, ho parlato fin troppo, tocca a voi”. Un secondo di silenzio, perché la performance di Barack è stata tanto breve quanto intensa, con un po' del predicatore, un po' dell'anchorman, un po' di Michael Jordan e un po' di Martin Luther King – tutta gente che ha sempre detto di non scordare mai da dove viene. La platea tiene il respiro e poi esplode nell'applauso d'amore cui Obama risponde impareggiabilmente: sparando sorrisi a sinistra, a destra e al centro.

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    Adesso tocca alle domande del pubblico, e tocca anche alla noia del cronista straniero ed estraneo. Perché gli elettori di Obama – e i suoi avversari rispettosi, che si rivelano numerosi in galleria – lo prendono in parola. Per tutti i 40 minuti successivi d'orologio, scanditi da Phil con la precisione di un arbitro di basket, le domande che si susseguono sono tutte veramente, esclusivamente, profondamente locali. Si parla di una miriade di piccole, infinitesimali questioni (del resto non ci avevano avvertito?) di finanziamenti mancati, di promesse non mantenute, di magagne non riparate, di piccole falle nel sistema statale. Dove sono i soldi per riparare quella scuola? Perché il tasso d'interesse sull'acquisto delle sementi non segue le proiezioni annunciate? Quale ombrello assistenziale si predispone per la zona dello Stato in riconversione postindustriale? A parlare sono pensionati, insegnanti, neo-disoccupati, casalinghe, piccolissimi imprenditori. Curiosamente non ci sono gli studenti, forse perché loro Barack l'aspettano quando li andrà a stanare nei college e nelle università. Ma questo è il paese normale e quando s'alza un repubblicano a fare i suoi appunti a Obama, a dirgli di stare attento a non fare troppe promesse perché la stessa gente che oggi gli crede domani potrebe disprezzarlo, Barack si atteggia a gran rispetto, lo chiama cerimoniosamente “signore”, e dice che lui non è arrivato fino a lì per diventare una vergogna della sua famiglia e della sua città e che sull'argomento non si dilunga solo perché vuole che il tempo sia l'arbitro imparziale.
    Quando Phil gli fa segno, Barack taglia corto. Saluta senza fronzoli, con l'aria di dire, “ci si rivede presto, poche cerimonie”. Ingolla un sorso d'acqua e scende dal palco.
    Nei camerini l'aspettiamo noi, la “stampa locale”. Lui adesso cambia un po' atteggiamento, è più sbrigativo, certamente meno disponibile che col suo pubblico. Fa capire che per la stampa ha poco tempo, che lo seguano se vogliono, ma che non gli chiedano prestazioni extra rispetto a quelle che offre agli elettori. Gli chiediamo se è pronto ad alzare il tiro, ad assumere nel suo repertorio di argomenti dei temi davvero assoluti, insomma se e quando parlerà di guerra e pace, di diversità, di amore e odio. Lui si mette sulla difensiva, ricomincia la solfa “ogni cosa a tempo dovuto”, ci fa capire che esiste un Obama pubblico e uno privato e che quest'ultimo, come la maggior parte di noi, accoppia i grandi sentimenti ai conti della spesa. Che non si sente pronto ad assumere vesti predicatorie, che pensa che adesso non sia quello il pulpito da cui i suoi elettori lo vogliono ascoltare. Barack, insomma, ci espone il suo pendant calcolatore, da piccolo scienziato dell'escalation verso un potere solido, prima di tutto, nelle fondamenta. E mentre ci parla – non può essere un'allucinazione – il suo sguardo appare più gelido di quello da buon pastore, da medico condotto che mostrava alla platea, quando faceva la parte di colui che ha un gran fascino ma ne ignora l'esistenza. Il Barack dei camerini è uno che sa quanto vale fino all'ultimo grammo e che manipola la propria apparenza col consumato savoir faire del commediante. Anche per questo la nostra ingenua simpatia nei suoi confronti scema. E riaffiora il solito impertinente scetticismo latino.

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    Scusate, ma a freddo a me Barack Obama fa pensare alla parte peggiore di Francesco Rutelli, quella spavalda del “ve lo spiego io”, quella dei sorrisoni sfottenti e un tantino rimorchioni, quella delle cravatte comprate a New York e dell'abitudine a piacere pure troppo. Barack ha un vantaggio: quello di rivolgersi a un pubblico per natura ben disposto, non in peloso eccesso di sospetti, eccitato dalle novità, dalle facce nuove, facile a lasciarsi stregare dal fascino, a patto che si accoppi a cose ben dette e suffragate, se non dai fatti, almeno dalle intenzioni. Insomma questo Obama senza macchia – che per molti versi ci sembra sottilmente arrogante, attentamente studiato, insopportabilmente attento alla questione formale – può fare un sacco di strada, fino ad avvicinarsi ai raggi più caldi del sole. Quello che succederà dopo non può essere annunciato adesso, perché a quei campionati Barack non ha davvero mai partecipato e non è proprio detto che lo possa fare solo col suo campionario di moine, di frasi fatte, di fotogenia e buon eloquio.
    Diciamo che c'è un fatto strano: un nero è la vera faccia nuova della politica Usa nel 2005. Un democratico in fondo moderato, dotato della necessaria disinvoltura per shiftare verso posizioni di ampia compatibilità. Seguirne la parabola sarà istruttivo. Come, d'altronde lo è apprendere che un fenomeno del genere l'America l'abbia espresso anche quest'area della conservazione agricola che fa tanto Right America, qui nel Southern Illinois. “Da quelle parti si tiene in un certo conto l'opinione del Ku Klux Klan”, ci racconta uno che ha il piacere di classificarsi tra gli innumerevoli amici di Obama. Sarà: eppure hanno mandato su lui. Bello e affascinante quanto ti pare. Ma nero, e con la fissazione dei diritti dei deboli. Quanto basta per smettere, una volta per tutte, di definire “schematico” il flusso della politica americana e i suoi imprevedibili prodotti.