Il popolo di Obama

Stefano Pistolini

Domenica pomeriggio di primavera. Waterfront Park, Portland, Oregon, dolce parco che digrada verso l'acqua. Sono venuti tutti: settantacinquemila, secondo le stime dei pompieri. La popolazione di una città. Coppia di ragazze discinte e abbracciate, che dicono: “Mai vista tanta gente”. Bambino con occhiali: “E' divertente star qui ad aspettare Barack”. Padre di famiglia con neonato in braccio: “Obama deve diventare presidente. Quel che riesce a fare è fenomenale. Non ero mai venuto a un comizio: mi piace un sacco”.

    Domenica pomeriggio di primavera. Waterfront Park, Portland, Oregon, dolce parco che digrada verso l'acqua. Sono venuti tutti: settantacinquemila, secondo le stime dei pompieri. La popolazione di una città. Coppia di ragazze discinte e abbracciate, che dicono: “Mai vista tanta gente”. Bambino con occhiali: “E' divertente star qui ad aspettare Barack”. Padre di famiglia con neonato in braccio: “Obama deve diventare presidente. Quel che riesce a fare è fenomenale. Non ero mai venuto a un comizio: mi piace un sacco”.
    Backstage. La prossima famiglia reale si prepara a entrare: Barack in maniche di camicia arrotolate, Michelle abitino modesto e leggero color malva, le bambine vestite da estate. Fa un caldo boia, c'è un sole meraviglioso. Come dirà poco dopo il candidato: “Beh diciamo che ci dà una mano il fatto che questa sia la giornata perfetta”.
    La solita musica epica accompagna gli Obamas sul palco, perché ormai è chiaro a tutti che questi sono raduni, mica comizi, celebrazione di una aspettativa, luoghi della celebrazione come gli ottocenteschi revival, nel nome della stagione in cui l'America ritrova il piacere di stare assieme, perché c'era un leader che sa motivarla, placarla, rassicurarla, e dice di conoscere il segreto dei padri per rinnovare il sogno.
    Si viene per vedere, prima che ascoltare. Per esserci. Quando Barack comincia il suo breve discorso, dal momento che non si tratta di una di quelle preziose occasioni in cui ha provato a spiegarsi, a motivarsi, a descriversi (facendolo bene, in modo passionale e colto al tempo stesso, come a Philadelphia il 18 marzo, all'indomani dello scandalo sulle relazioni pericolose col reverendo Wright), dal momento che questo è un raduno di gente, venuta per contemplarsi e riconoscersi, il discorso di Barack ripete esattamente i medesimi concetti impalpabili e visionari del primo pronunciamento elettorale, quello della discesa in campo a Springfield, Illinois, sedici mesi orsono. Argomenti, toni, frasi, una dopo l'altra, sono identici: “Questa campagna e questa elezione non sono su Barack Obama, non sono su Hillary Clinton o su John McCain. Questa campagna è sulle vostre speranze e i vostri sogni. Parla di una nuova generazione di americani che si alza e dice: non ci accontentiamo di quello che ci resta, vogliamo immaginare ciò che riusciremo a fare. Arriva sempre un momento così per una generazione: i dubbi, le paure, il cinismo ci accerchiano, ma ci si dà da fare, ci si prende sottobraccio, e si comincia a ricostruire la nazione, casa per casa, contea per contea, stato per stato. Questo è il nostro momento, è il nostro tempo. Noi siamo gente indipendente, ma non gente che volta le spalle. Sappiamo che dipendiamo gli uni dagli altri, che solo così possiamo farcela. Si vince insieme e si perde insieme. Questa è esattamente la mia storia, la storia della mia vita. Ma è anche la vostra storia. E' la storia americana. Questa è la battaglia che stiamo combattendo in questa campagna elettorale. Questo è il motivo per cui qui in Oregon dovete votare per me. E vi prometto che quando avrò vinto le elezioni, cambierò questa nazione, insieme a voi, e che insieme cambieremo il mondo. Grazie Portland. Che Dio vi benedica e che benedica l'America”.
    Puro messaggio emotivo. Un crescendo perfetto, pelle d'oca per l'esperienza partecipativa. L'esatto contrario della politica americana degli ultimi vent'anni. Niente numeri, strategie, piani operativi. Un pezzo di cuore, una bella faccia e l'invito a fidarsi. Per il resto si conta sul provvidenziale intervento dell'eccezionalità americana, che non può tradire a un punto di svolta come questo, se è vero che c'è un Dio e che un Dio ha permesso che la storia degli uomini s'annodasse a quella della nazione nata sul filo di un'utopia.
    Una folla del genere da quelle parti non si ricordava. I sorrisi distesi, lo stupore rilassato che i telegiornali hanno rimandato, hanno più impatto di mille spot a pagamento. L'America s'è riguardata, impressionata e commossa. Un chilometro di teste pressate, e sulle rive del fiume Willamette centinaia che osservano dai kayak e dalle barchette. Gente perfino sulla sponda opposta del fiume.
    Hillary Clinton, l'avversaria che viene dal passato e al passato è indissolubilmente legata, impallidisce malinconicamente sullo sfondo. L'uomo delle promesse avanza nella luce di maggio. Finché riesce a cristallizzare la temperatura psicologica nazionale sui livelli che ciascuno di noi assapora allorché dalla radio, a tradimento, esce la canzone preferita, e d'improvviso il bello della vita ci piove in testa, travolgendoci – finché Barack Obama continua a essere il mago di questa benefica pioggia, non c'è razza, religione o scandalo che lo fermerà. Anche se poi è vero che alla fine di una giornata bellissima arriva quel momento sconcertante e inatteso della sera, coi pensieri cupi e le preoccupazioni che ritornano.