Quando fu abortito Moro - terza parte

Claudio Cerasa

C'è però un altro filo sottile che nella seconda metà degli anni Settanta lega ancora di più l'ex presidente della Dc con la legge 194. Non sono solo coincidenze temporali, difatti, ma sono fianchi diversi di uno stesso profilo storico. Tre anni prima che la legge fosse approvata – e quando già l'Espresso aveva aperto un suo numero con una storica copertina in cui una donna nuda, incinta e crocifissa posava con il pancione a metà tra titolo (“Aborto: una tragedia italiana”) e didascalia (“Ecce Mater”) – fu Aldo Moro ad anticipare il modo in cui il partito avrebbe affrontato l'iter legislativo.

    C'è però un altro filo sottile che nella seconda metà degli anni Settanta lega ancora di più l'ex presidente della Dc con la legge 194. Non sono solo coincidenze temporali, difatti, ma sono fianchi diversi di uno stesso profilo storico. Tre anni prima che la legge fosse approvata – e quando già l'Espresso aveva aperto un suo numero con una storica copertina in cui una donna nuda, incinta e crocifissa posava con il pancione a metà tra titolo (“Aborto: una tragedia italiana”) e didascalia (“Ecce Mater”) – fu Aldo Moro ad anticipare il modo in cui il partito avrebbe affrontato l'iter legislativo. Disse Moro: “La ritrovata natura popolare del partito induce a chiudere nel riserbo delle coscienze alcune valutazioni rigorose, alcune posizioni di principio che sono proprie della nostra esperienza in una fase diversa della vita sociale, ma che fanno ostacolo alla facilità di contatto con le masse e alla cooperazione politica. Vi sono cose che, appunto, la moderna coscienza pubblica attribuisce alla sfera privata, e rifiuta siano regolate dalla legislazione e oggetto di intervento dello stato. Prevarranno dunque la duttilità e la tolleranza”. E anche per questo, il 21 gennaio del 1977 Giulio Andreotti scrisse queste parole sul suo diario personale: “Seduta a Montecitorio per il voto sull'aborto. Passa con 310 a favore e 296 contro. Mi sono posto il problema della controfirma a questa legge (lo ha fatto anche Leone per la firma) ma se mi rifiutassi non solo apriremmo una crisi appena dopo aver cominciato a turare le falle, ma oltre a subire la legge sull'aborto la Dc perderebbe anche la presidenza e sarebbe davvero più grave”.
    Ci sono però alcuni dettagli interessanti per capire come sulla approvazione della legge ci sia ancora qualche piccolo giallo e qualche numero che a distanza di trent'anni ancora non torna. Prima di arrivare al Senato, e prima che l'undici maggio fosse respinta la pregiudiziale di incostituzionalità al testo proposta dalla Dc (su Repubblica, Giorgio Rossi spiegò il senso di quel voto compatto con queste parole: ci fu “l'esigenza di non aprire lacerazioni nel paese”) la legge – un anno prima – fu approvata alla Camera con 308 voti a favore e 275 contrari. Solo che se fra i favorevoli i voti mancanti risultarono essere undici, fra i contrari invece i voti in meno furono ben trentatré. Tra questi, c'erano ventinove assenti. E tra gli assenti dodici erano deputati democristiani. Il discorso fatto in quei giorni, che sostenne le critiche rivolte negli anni ai deputati cattolici, fu questo: se tutti i contrari fossero stati presenti in Aula il sette giugno del 1977 la legge sull'aborto chissà quando sarebbe passata.
    Ma per parlare del maggio del 1978, se è vero che non si può prescindere dagli anni che hanno preceduto l'arrivo della legge in Parlamento e non si può prescindere da Aldo Moro, non si può naturalmente prescindere neppure da Marco Pannella, dai movimenti femministi e dalle critiche più forti arrivate sulle spalle della Dc. (Il circolo via Pompeo Magno spiegò così la sua posizione sull'intoccabilità dei principi della legge: “L'irresponsabilità criminale dello sperma ritenuto intoccabile è l'imperfezione evolutiva dell'uomo che impediva che si realizzasse in lui la distinzione tra il piacere sessuale e la riproduzione”). Ci sono poi due aspetti politici molto importanti da considerare. Il primo è questo. La Dc non fece un vero e proprio ostruzionismo in Parlamento. Fece un'altra cosa: un'opposizione costruttiva. E' vero, la Dc votò contro la legge; ma coloro che ancora oggi criticano l'atteggiamento un po' remissivo del partito in quegli anni notano che non solo fu la stessa Democrazia cristiana ad essersi intestata ufficialmente la responsabilità di sostenerne la costituzionalità della legge nei mesi successivi (il testo fu inviato all'avvocato generale dello stato e fu poi difeso dalla Dc); non solo il gruppo Dc alla Camera votò insieme al Pci contro l'eccezione di incostituzionalità alla legge, ma lo stesso governo della Dc, il 5 dicembre 1979, si costituì in difesa della 194 davanti alla Corte costituzionale. (Poco prima della votazione e dopo le parole di Aldo Moro del 1976, la Dc ritirò inoltre ogni clausola che caratterizzasse l'aborto volontario come un crimine. Il Pci, invece, si comportò in maniera diversa). Il Partito comunista, dall'altro lato, era appena uscito dalle elezioni amministrative molto penalizzato. Il 10 giugno del 1976 i comunisti toccarono il 34,4 per cento e sette giorni dopo l'omicidio Moro, alle comunali, toccarono appena il 26,4 per cento. In quel contesto, il Pci accettò che nella legge venissero posti dei limiti alla libertà di scelta della donna, accettò che per le ragazze sotto i diciotto anni fosse obbligatorio il permesso dei genitori ad abortire; e il Pci non si oppose neppure all'articolo che prevedeva ai medici il diritto obiezione di coscienza.
    Ma per spiegare il clima di quei giorni, l'intervento che a questo proposito fece nel 1999 l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga fu indicativo: “Un cattolico può separare convinzioni etiche e realtà politica. Si può dire che sono contro l'aborto, ma che non ne faccio questione di battaglia politica. Mi inchino al volere della maggioranza: non si rompe un governo sull'aborto”. “La Dc – scrisse invece Cossiga nel 1991 – ha meriti storici grandissimi nell'aver saputo rinunciare alla sua specificità ideologica e ideale: le leggi sul divorzio e sull'aborto sono state firmate da capi di stato e da ministri democratici cristiani che, giustamente in quel momento, hanno privilegiato l'unità politica a favore della democrazia, della libertà e dell'indipendenza”. Il senatore Colombo e il senatore Andreotti notano con il Foglio anche un legame particolare con la legge sul divorzio. Non fu un caso che il primo disegno di legge sull'aborto discusso in Parlamento fu quello presentato dal deputato socialista Loris Fortuna. Era l'11 febbraio 1973: per la prima volta una legge sull'aborto fu discussa in Aula. E Loris Fortuna fu proprio lo stesso deputato che nel 1965 presentò in Parlamento la legge sul divorzio.
    Spiega il senatore Colombo: “Sia il divorzio che l'aborto arrivarono in un periodo in cui quelle leggi avrebbero indebolito la maggioranza. Naturalmente, come all'epoca del referendum sul divorzio, la Dc si schierò contro. Ma proprio come era accaduto pochi anni prima, anche quando si trattò di votare per l'aborto fu via via sempre più chiaro che alcune frange favorevoli della maggioranza erano meno impegnate e più superficiali di quello che si riteneva un tempo”. Anche Andreotti la pensa così: “In effetti, le due leggi noi le vedevamo abbastanza collegate anche se di per sé esiste un aspetto diverso. L'aborto è un assassinio. E' l'uccisione di una creatura. Il divorzio è invece la recessione di un vincolo fondamentale. Ovvio che fisicamente non si tratta di un assassinio. Però lo sfondo culturale dei due temi ha una parte comune notevole”. Spiegano i due senatori a vita: “La legge fu comunque una conquista anche se bisogna vedere da che punto di vista. A me – dice Andreotti – pare però che l'argomento base che la legge dovrebbe avere, e che ancora non ha, è la tutela giuridica del concepito. Il concepito è un soggetto. Non è un pezzetto della madre con la partecipazione dell'uomo. Purtroppo oggi sull'argomento c'è meno sensibilità che all'epoca. I termini oggettivi del problema, però, non sono cambiati”.
    Ci fu anche qualcuno che riuscì con un certo anticipo a prevedere quella che negli anni successivi sarebbe diventata indifferenza morale nei confronti dell'aborto. In pochi diedero ascolto a quelle parole; ma intanto, pochi giorni prima che la legge fosse approvata, l'Osservatore Romano scrisse così. “Non solo è necessario che una legge non imponga il crimine, ma è doveroso che non rimanga indifferente, non si disinteressi e tuteli uno dei diritti fondamentali della persona umana, anzi il diritto prioritario e primordiale come quello della vita senza distruggere i suoi fondamenti”. Così, oggi che si sono raggiunti il miliardo di aborti nel mondo, Andreotti registra in questo modo la sua idea di “aborto moralmente indifferente”. “Il fatto è che in quegli anni il Parlamento fu costretto a decidere su un argomento che aveva un suo valore e che gran parte del mondo aveva ormai legiferato. Ma bisogna fare attenzione. Ogni giorno in tutto il mondo ci sono furti e ci sono leggi nuove che cercano di prevenire i reati e salvaguardare alcuni diritti. Ma se un diritto è garantito da una legge quando questo diritto viene violato non è ammesso far finta di nulla”.
    Il sette maggio di quell'anno ci fu un articolo significativo. Uscì ancora una volta sull'Osservatore Romano e il commentatore parlò di vita, parlò di Moro e parlò anche di pena di morte. “Non esiste spiegazione plausibile al fatto che la pena di morte venga oggi respinta in nome di un principio universale e perenne (la vita è sacra) mentre altre forme di attentato alla vita vengono accettate o sono state massicciamente accettate nel passato”. Tutto dunque cominciò nel 1975, passò in due anni e mezzo dalla Camera al Senato; passò per quel maggio del 1978, per il compromesso storico, per i governi di solidarietà nazionale, partendo da un referendum, dalle ototcentomila firme ed ebbe uno dei momenti più significativi del dibattito in un vecchio articolo di Pier Paolo Pasolini. Quello pubblicato nel 1975 sul Corriere della Sera, in risposta ad Alberto Moravia. Quello in cui Pasolini scrisse che “la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore”; quello in cui lo scrittore bolognese disse che “la falsa liberalizzazione del benessere ha creato una situazione altrettanto e forse più insana che quella dei tempi della povertà”; che il “primo risultato di una libertà sessuale regalata dal potere è una vera e propria generale nevrosi”; che “la facilità ha creato l'ossessione” e che il risultato è “una facilità indotta” e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l'esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza”. E tre anni dopo le paure di Pasolini si trasformeranno in legge. (fine)

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.