Quando fu abortito Moro - seconda parte

Claudio Cerasa

Le cronache di quei giorni sono la sintesi perfetta di come mondi completamente diversi, dopo essere stati travolti dai cinquantacinque giorni di prigionia del presidente della Dc, arrivarono in Parlamento a discutere nuovamente di “vita”. Prima del nove maggio, la vita in ballo era quella del presidente della Dc. Dal giorno dopo quegli undici colpi di mitra, le vite su cui discutere – e da difender oppure no – diventarono quelle dei nascituri. Comunque la si voglia mettere, una questione di umanità. Il sette maggio, due giorni prima che Moro venisse ucciso dalle Brigate rosse, l'Osservatore Romano scriveva così: “E' una delittuosa serenità quella che si vuole ottenere con l'aborto. Chi fa della questione dell'aborto un problema di schieramenti parlamentari riduce la vita a una pratica burocratica. Non è solo nel segno dell'appartenenza a un partito o a una fede che bisogna difendere la vita, ma nel segno dell'umanità”.

    Le cronache di quei giorni sono la sintesi perfetta di come mondi completamente diversi, dopo essere stati travolti dai cinquantacinque giorni di prigionia del presidente della Dc, arrivarono in Parlamento a discutere nuovamente di “vita”. Prima del nove maggio, la vita in ballo era quella del presidente della Dc. Dal giorno dopo quegli undici colpi di mitra, le vite su cui discutere – e da difender oppure no – diventarono quelle dei nascituri. Comunque la si voglia mettere, una questione di umanità. Il sette maggio, due giorni prima che Moro venisse ucciso dalle Brigate rosse, l'Osservatore Romano scriveva così: “E' una delittuosa serenità quella che si vuole ottenere con l'aborto. Chi fa della questione dell'aborto un problema di schieramenti parlamentari riduce la vita a una pratica burocratica. Non è solo nel segno dell'appartenenza a un partito o a una fede che bisogna difendere la vita, ma nel segno dell'umanità”. Umanità, dunque. Ma non solo questo. Giovanni Russo, sul Corriere della Sera in prima pagina, riassunse così il senso che quella legge poteva avere anche per gli osservatori laici. “L'aborto clandestino poneva la donna nella condizione di una solitudine atroce, la esponeva indifesa a ogni abuso e a rischi talvolta mortali soprattutto nelle classi meno abbienti”. In quei giorno, il tratto di pianificazione familiare nascostosi poi nel tempo dietro le leggi sull'aborto era ancora una paura che trovava riscontri solo in alcuni dibattiti parlamentari e solo sulle prime pagine dei giornali cattolici. Allora, forse, non era immaginabile quello che oggi anche per il Parlamento europeo sembra essere diventato chiaro. E' vero: nel corso degli anni, in concomitanza con la legge 194 il ricorso all'aborto è diminuito sempre di più. Rispetto al 2007, in Italia le interruzioni di gravidanza sono scese circa del tre per cento ma 348 aborti al giorno sono comunque un numero che fa impressione. E anche a questo proposito è significativa una ricerca presentata due giorni fa a Bruxelles all'Istituto per le politiche della famiglia (“L'evoluzione della famiglia in Europa”) che spiega bene come parte dell'elettorato laico e cattolico aveva già previsto trent'anni fa: “Il collasso della famiglia nel vecchio continente”. I dati presentati a Bruxelles si commentano da sé. In Europa si registra un aborto quasi ogni trenta secondi rispetto al 1980, nel 2007 sono nati quasi un milione di bambini in meno e una gravidanza ogni cinque oggi finisce con un aborto. Come scriveva il Corriere della Sera, in prima pagina, due giorni dopo l'approvazione della legge 194 (l'editoriale di Giovanni Russo uscirà con un giorno di ritardo a causa dello sciopero dei poligrafici della federazione milanese), la sintesi di quell'iter legislativo si potrebbe anche concludere così: “L'aborto resta un dramma anche se non è più reato”. (Il Corriere della Sera, quel giorno – chissà se con malizia – pubblicherà tutti i ventidue articoli della legge nella stessa pagina dei necrologi).
    Furono in molti a non poter far a meno di notare la coincidenza e il modo in cui i politici di quei mesi furono costretti a parlare di due argomenti naturalmente diversi ma ugualmente drammatici. Sempre Claudio Sorgi, per esempio, spiegò il suo punto di vista mettendo insieme la vita di Moro e la vita del nascituro (“Sia per la vita di un altissimo esponente politico, sia per la vita del nascituro nel seno di una donna decidere che anche solo uno dei due può essere ucciso significa decidere il principio del suicidio per la stessa umanità. Quanto meno di un suicidio morale, ma forse anche di un suicidio fisico”). Il ragionamento che però fa con il Foglio Giulio Andreotti è un po' diverso. Il senatore a vita dice che l'aver fatto della questione dell'aborto un problema di schieramenti parlamentari ha sostanzialmente ridotto la vita a una pratica burocratica. Parafrasando alcuni commenti del maggio del 1978, l'ex presidente del Consiglio dice che non è solo il segno dell'appartenenza a un partito o a una fede che bisogna difendere la vita, ma lo si deve fare nel segno dell'umanità. “Come non è solo un fatto cristiano o – tanto meno – democristiano la difesa della vita dell'onorevole Moro o dei rapiti, feriti, uccisi in questi giorni così anche la vita dei nascituri non può e non deve essere solo un fatto religioso o partitico”, scrisse l'Osservatore Romano”. “La legge sull'aborto – dice Andreotti – fa parte di un capitolo basilare della storia della nostra nazione. Noi cercammo, anche se questo non era facile, di farne non una questione di Democrazia cristiana ma di farne un discorso più in generale. Sostenevamo, infatti, che se scientificamente si dimostra che il concepito è una creatura, allora uccidere una creatura è altrettanto grave, se non più grave, che uccidere un adulto. Uccidere un bambino di otto mesi, a mio avviso, è molto più grave che uccidere uno come me che ha novant'anni. Ma mi rendo conto che ancora oggi c'è chi fa fatica a concepire come un omicidio l'aborto. Ma a mio parere, le cose stanno così”. Il senatore a vita la 194 la firmò da presidente del Consiglio; e seppur la Democrazia cristiana provò a combattere in Parlamento una battaglia per tutelare il più possibile la vita del nascituro, il fatto è che in calce alla legge sull'aborto, oltre a quella di Andreotti, ci sono anche le firme di altri democristiani. Come Giovanni Leone e come i ministri Dc del governo che firmarono la legge: Francesco Paolo Bonifacio, ministro di Grazia e Giustizia, Tommaso Morlino, ministro per il Bilancio e la Programmazione economica e Filippo Maria Pandolfi, ministro del Tesoro, Tina Anselmi ministro della Sanità. Il capo dello stato, come notano le cronache di quei giorni, avrebbe anche potuto rimandare la legge 194 alle Camere per “sospetta incostituzionalità”. Leone, però, firmerà dopo quattro giorni il testo di legge.
    La riflessione che oggi fa Andreotti con il Foglio è che ci fu una gran fretta di mostrare compattezza. E se pochi anni fa il senatore a vita, nel venticinquesimo anniversario della legge 194, disse “oggi preferirei dimettermi piuttosto che controfirmare quella legge”, ora l'ex presidente del Consiglio la mette così. “Sì, quella fu la prima grande legge approvata dopo Moro e in effetti io ricordo che noi rimanemmo molto male, per esempio, che data la tensione che c'era gli altri partiti non vollero nemmeno sospendere per qualche momento le sedute proprio quando eravamo tutti tesi alla ricerca di Moro. Questo fu uno dei motivi anche più aspri di discussione. A mio avviso, era comunque arrivata a livello parlamentare una svolta nella quale il ‘sì' e il ‘no' erano ormai maturi. Ritardare, certo, poteva evitare nell'immediato un impatto un po' traumatico; però avrebbe anche protratto un dibattito su un tema così forte che giustamente interessava tutte le forze politiche e che, dall'altra parte, non poteva naturalmente essere l'unico tema a cui dedicare tutte le nostre forze. In quel contesto – continua Andreotti – è corretto dire che riuscire a convergere su una legge di quel tipo fu un segnale politico forte. Dopo tensioni molto forti in un paese c'è, e ci deve essere, un momento di respiro; un raffreddamento che qualche volta porta a vedere meno intensamente anche problemi importanti. Ma siccome la gran parte delle legislazioni del mondo l'aborto lo contemplava, ringraziamo Dio che ce lo siamo levato di torno perché ce lo saremmo ritrovato successivamente e magari avrebbe complicato ancora di più le cose”.
    Andreotti ricorda i dati riportati in quei giorni dai giornali. In Ungheria l'aborto fu legalizzato nel 1955 e già nel 1972 si registrarono più aborti che nascite; e, per esempio, in Bulgaria la legge arrivò nel 1953 e gli aborti passarono dai 17.400 di quell'anno ai 119.500 del 1996. “Ufficialmente – continua il senatore a vita – a me non risulta che ci sia qualcuno che sia pentito del voto al Senato in quei giorni. E' vero però questo, cioè che se anche qualche volta una norma sembra risolvere bene il problema poi ogni tanto si scopre che una norma non solo il problema non lo risolve bene ma ne apre altri che si sarebbero potuti evitare”.
    Anche il senatore a vita Emilio Colombo, trent'anni dopo, ricostruisce così il clima difficile in cui quella legge fu approvata. Quel pomeriggio al Senato, il senatore Colombo spinse il bottone del no. “Il giorno dell'uccisione di Aldo Moro, io mi trovavo a pochi metri da via Caetani, in Piazza del Gesù, nella sede della Democrazia cristiana. Il partito aveva riunito tutta la direzione e ricordo che stavamo per discutere di una proposta che ci era arrivata attraverso la presidenza della Repubblica. Si trattava di uno scambio possibile con i brigatisti con un tale di cui non ricordo il nome. Si stava per esaminare questa faccenda quando sentimmo le urla di sotto che ci venivano ad avvertire. In quel momento, e in quei giorni, eravamo tutti sconvolti e trovarsi pochi giorni dopo di fronte alla spinta all'ordine del giorno sulla legge 194 non fu affatto facile. Perché un voto sull'aborto che non avesse raggiunto una maggioranza avrebbe indebolito il legame tra i partiti. Senza capire questo è difficile comprendere il senso di quei giorni”. (continua). (Foto Ansa)

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.