Era stato lui il primo a piegare la testa alla “moderna coscienza pubblica”

Quando fu abortito Moro - prima parte

Claudio Cerasa

Le brigate rosse uccisero Aldo Moro con undici colpi di mitra il nove maggio di trent'anni fa, lasciando il corpo del presidente della Democrazia cristiana avvolto in un cappotto grigio dentro il cofano di una Renault 4. Era la primavera del 1978, Aldo Moro rimase prigioniero dei suoi assassini per cinquantacinque giorni e i brigatisti abbandonarono il cadavere del presidente della Dc a metà strada tra la vecchia direzione della Democrazia cristiana e quella del Partito comunista (in via Caetani). Passarono pochi giorni, i giornali continuarono a raccontare i dettagli della “strategia di annientamento” delle Br, Francesco Cossiga si dimise da Ministro degli interni, la Dc vinse le elezioni amministrative (42,7 per cento dei voti, crollo del Pci e passi in avanti del Psi) e poche ore dopo il discorso alle Camere su Aldo Moro del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il primo atto ufficiale del Parlamento fu l'approvazione della legge 194.

    Le brigate rosse uccisero Aldo Moro con undici colpi di mitra il nove maggio di trent'anni fa, lasciando il corpo del presidente della Democrazia cristiana avvolto in un cappotto grigio dentro il cofano di una Renault 4. Era la primavera del 1978, Aldo Moro rimase prigioniero dei suoi assassini per cinquantacinque giorni e i brigatisti abbandonarono il cadavere del presidente della Dc a metà strada tra la vecchia direzione della Democrazia cristiana e quella del Partito comunista (in via Caetani). Passarono pochi giorni, i giornali continuarono a raccontare i dettagli della “strategia di annientamento” delle Br, Francesco Cossiga si dimise da Ministro degli interni, la Dc vinse le elezioni amministrative (42,7 per cento dei voti, crollo del Pci e passi in avanti del Psi) e poche ore dopo il discorso alle Camere su Aldo Moro del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il primo atto ufficiale del Parlamento fu l'approvazione della legge 194. La legge che Andreotti firmò il 18 maggio del 1978 e che dal 22 maggio del 1978 legalizzò ufficialmente l'aborto in Italia. In un clima però molto particolare. A Palazzo Madama, quel giorno ci furono centosessanta senatori che votarono a favore del testo e centoquarantotto che invece accesero le lampadine di un colore diverso. In Parlamento c'era anche Ferruccio Parri; c'era Pietro Nenni che si era appena ripreso da un collasso e che camminava a fatica poggiandosi su un bastone con la mano destra; e c'era il senatore comunista, Armando Cossutta, che durante la chiama dell'appello nominale si sbagliò, disse di no alla legge che voleva e fu applaudito dai democristiani di Palazzo Madama. Gli altri, invece, votarono tutti correttamente e la legge sull'aborto registrò così l'appoggio decisivo di questi partiti: Partito comunista, Partito socialista, Partito Socialista Democratico Italiano, Partito liberale e Partito repubblicano. Tutti, come si diceva allora, “a favore della autodeterminazione della donna”. Contro la legge, oltre al voto di Cossutta (che però poi corresse subito la sua dichiarazione) ci furono quelli della Democrazia cristiana e quelli del Movimento sociale italiano. Ma avvenne tutto in condizioni che alcuni cattolici non perdonarono ai dirigenti della Dc. Troppo transigenti, poco combattivi, poco convincenti e quasi rassegnati, si diceva.
    Erano gli anni del compromesso storico e dei governi di solidarietà nazionale: a Palazzo Chigi c'era per la quarta volta Giulio Andreotti e al Quirinale Giovanni Leone. Enrico Berlinguer e Benigno Zaccagnini erano i segretari dei due principali partiti del paese, Pci e Dc; e il Partito comunista aveva votato, per prima volta, la fiducia al governo democristiano (a gennaio). E così, negli anni di piombo, negli anni in cui i cattolici e i democristiani cominciavano a viaggiare lentamente sui binari di convergenze parallele, la legge sull'aborto fu approvata in un momento utile da ricordare per capire il senso di una legge nata in uno stato commissariato dal terrore. E leggendo le cronache di quei giorni, e parlando con i senatori a vita Emilio Colombo e Giulio Andreotti (entrambi ex Dc), a trent'anni di distanza ci sono alcuni aspetti di quel maggio del 1978 che sembrano essere stati un po' rimossi dalla memoria politica collettiva: perché la 194, il referendum, il terrorismo, Moro, il compromesso storico, gli anni di piombo, Berlinguer, Zaccagnini e Pannella sono tutte facce di una stessa medaglia senza le quali non è possibile capire come nella primavera di trent'anni fa l'Italia ebbe la sua legge sull'aborto. Condizioni particolari non solo per l'argomento trattato; ma soprattutto per gli equilibri che il Parlamento doveva mantenere in quelle ore.
    Furono giorni molto intensi, quelli; e basta scandire le ore più significative di quelle settimane per capire in che clima fu approvata la legge. Il nove maggio fu ucciso Moro, il dieci maggio si dimise Cossiga, l'undici maggio a Milano le pistole di Prima Linea spararono sulla folla, il dodici maggio ci fu il funerale di Moro, il quattordici la Dc vinse le elezioni, il quindici il Pci si riunì per dodici ore per discutere della sconfitta elettoralee il diciotto maggio fu approvata la legge 194. Pochi anni dopo la votazione al Senato, Giulio Andreotti ricorderà così quelle ore: “Ebbi una crisi di coscienza e mi chiesi se dovevo firmare quella legge. Ma se io mi fossi dimesso nessun altro democristiano avrebbe potuto firmarla: si sarebbe aperta una crisi politica senza sbocco prevedibile e in un momento grave per il paese. Una crisi che avrebbe forse creato anche complicazioni internazionali. E da parte mia, con le dimissioni, avrei contribuito a un male maggiore di quello che volevo evitare. Così firmai”.
    Le reazioni all'approvazione della legge sulla 194, dunque, furono la prima grande notizia italiana che trovò ampio spazio sulle agende delle redazioni dei giornali dopo la morte di Moro. Qualche esempio delle prime pagine di quei giorni è importante per comprendere l'energia con cui gli editorialisti degli anni Settanta interpretarono il senso di quella legge. Gino Concetti firmò l'articolo di fondo dell'Osservatore Romano (“La via omicida”) scrivendo così: “Oggi non si tutela la maternità, non si promuove il diritto alla vita. Si offre la spinta, si rafforza la tendenza a reprimere la vita. I crimini diventeranno quantitativamente e qualitativamente enormi. L'aborto libero e gratuito contribuirà a rendere il fenomeno della diminuzione delle nascite ancora più preoccupanti”. Sempre lo stesso giornale, in un corsivo non firmato, diede poi questa interpretazione dei ventidue articoli appena approvati. “Questa è una legge iniqua, una legge contro la vita, uno dei segni negativi del nostro tempo. E' una legge che esprime l'egoismo, il permissivismo, la violenza cui la società non sa far fronte, che anzi asseconda e pratica. Una legge che con qualunque ideologia o sociologia resta (…) un freddo e calcolato no all'amore, una prevaricazione contro la persona, un tragico no ai più indifesi, proprio a coloro che sono nell'assoluta impossibilità di difendersi. Questa licenza di stroncare la vita umana è un esercizio della violenza che per quanto ora si compia con la protezione della legge, non perde nulla della sua estrema gravità”. Vista da sinistra, invece, e vista dalla penna di chi, come Miriam Mafai, difese e commentò a lungo l'argomento, quel giorno fu un momento elettrizzante; e ancora oggi l'editorialista di Repubblica rivendica il successo di quella legge. Mafai dice al Foglio di non avere lo spirito giusto per ricordare quegli anni perché, come ci spiega, “in quei giorni più che di aborto mi occupavo di Aldo Moro”. Ma sulla prima pagina del 19 maggio del 1978, accanto alle cinque colonne di fitto inchiostro con cui Repubblica dava notizia dei due covi scoperti delle Br e dei dieci terroristi arrestati, c'era proprio un articolo di Mafai. E c'è una chiave di lettura significativa. Secondo Mafai, la legge fu importante perché per la prima volta, tra le norme per la tutela sociale della maternità la donna non era più caratterizzata come oggetto di una decisione ma come soggetto; ed era la sola dunque a poter decidere di avviare un procedimento per l'interruzione di gravidanza. “Liberando le donne da una condizione di umiliazione, di paura – scrisse – la legge ha lo stesso peso, lo stesso valore innovativo che ebbe nel 1970 quella sul divorzio. Sia l'una che l'altra legiferano su una materia delicatissima, rinunciano a imprimere un segno ideologico alla scelta dei cittadini e proprio queste sono due leggi laiche per un paese laico; leggi che garantiscono a ognuno libertà di coscienza e di scelta”, spiegò Mafai; che nove giorni prima aveva descritto in prima pagina il cadavere di Aldo Moro avvolto nel suo cappotto nella Renault 4.
    Aldo Moro, il terrorismo, il compromesso storico e l'aborto. La storia della legge 194, però, è anche altro. E' anche la storia di una legge che contiene nelle sue radici il senso di un periodo dell'Italia. Un periodo in cui, per la prima volta, le donne vennero sottratte al cappio dell'aborto clandestino e videro cancellare una norma che fino a quel momento puniva l'interruzione di gravidanza anche con cinque anni di carcere. Le norme esistenti fino al 1978 erano quelle di matrice fascista che fece entrare in vigore nel 1931 il ministro della Giustizia Alfredo Rocco. All'epoca l'aborto era circoscritto nella sfera dei “delitti contro la integrità e la sanità della stirpe” ed era uno dei reati considerati contro gli interessi dello stato: la battaglia sulla legge 194 fu, tra le tante cose, anche una battaglia contro uno dei simboli di quel periodo storico dell'Italia.
    Ma il dato che riuscì a mettere d'accordo gran parte delle forze politiche fu quello legato all'aborto clandestino. Negli anni in cui i Radicali e il Partito comunista erano impegnati (con forze naturalmente diverse) nell'individuare un approccio nuovo nello “stare nel movimento” e nel cercare di fare appello a certi tratti controllabili dello spirito rivoluzionario del tempo, il dramma dell'aborto clandestino fu l'unico tratto che ebbero in comune i due partiti. Il Partito radicale, partendo proprio dai numeri dell'aborto clandestino, già da diversi anni aveva avuto un certo successo nel promuovere – con Marco Pannella e Adele Faccio – dure battaglie per legalizzare l'aborto. Fu un successo. I Radicali chiedevano – e chiedono ancora oggi – una depenalizzazione totale dell'interruzione di gravidanza e organizzarono la prima raccolta di firme per indire un referendum sulla legalizzazione dell'aborto. Era il 1975, erano necessarie 500 mila firme, i Radicali ne raccolsero 800 mila e il referendum si sarebbe dovuto svolgere proprio nel giugno del 1978. Poi a maggio arrivò la legge e niente referendum abrogativo. (La sera prima dell'approvazione della legge, Marco Pannella, Emma Bonino e Gianfranco Spadaccia rimasero per ventiquattro minuti imbavagliati in televisione lamentandosi per il poco spazio ricevuto per il referendum. “Si deve trasmettere il nostro silenzio”, disse Pannella). Il Partito comunista si comportò invece, a proposito della depenalizzazione, in modo molto diverso; anche per non rompere gli equilibri con le altre forze del Parlamento. Depenalizzare ma senza esagerare. E questa era anche la posizione dei socialisti, tanto che i relatori dei due partiti principali che si schierarono contro la Dc (Giglia Tedesco Tatò per il Pci e Domenico Pittella per il Psi) poco prima dell'approvazione della legge risposero alle iniziative radicali così: “Se a far sparire la clandestinità e a debellare l'aborto non basta la depenalizzazione, questa è tuttavia il presupposto necessario, anche se non sufficiente, per affrontare in modo nuovo il problema. Un eventuale referendum per abrogare le norme del codice Rocco – argomentarono i due relatori – significherebbe incrinare un'intesa che rimane l'unica risposta utile per formare il valido argine alle manovre terroristiche e destabilizzatrici”. Dunque, la legge fu approvata soprattutto sotto il peso della tragedia della clandestinità, secondo i dati forniti in quell'anno dal ministero della Sanità, e sotto forte condizionamento politico nell'Italia del terrorismo. Il ministro all'epoca si chiamava Tina Anselmi – fu, tra l'altro, la prima donna ministro in Italia nel 1976 con Andreotti al dicastero del Lavoro – e gli aborti clandestini calcolati ogni anno erano ufficialmente circa 850 mila aborti. Numeri che però andavano a mettersi di fianco alle statistiche dell'Unesco (che ne stimò circa 1.200.000) e ai tre milioni di aborti clandestini registrati dal movimento femminista. “Già dai primissimi anni Settanta, l'aborto fu uno dei simboli decisivi di quel percorso di liberazione che avrebbe voluto svincolare le donne dall'oppressione in un contesto sociale profondamente modificato – spiega Aida Riberto in “Una questione di Libertà. Il femminismo negli anni Settanta”.
    A Roma, anche per questo, si era costituito il Comitato romano aborto e contraccezione (Crac). Un comitato che agiva nella clandestinità e che mandava le proprie pazienti ad abortire a Londra o in Svizzera. Sempre in quegli anni, un movimento femminista romano (quello di via Pompeo Magno) rivendicò in modo originale il principio di autodeterminazione della donna: “Non vogliamo leggi sul corpo delle donne, fatene quante ne volete sull'eiaculazione”. Ma la dialettica di quei giorni, dopo che per settimane il governo di solidarietà nazionale era stato afferrato dal dramma dell'intransigenza contro i brigatisti, pesò molto nel voto e nel dibattito parlamentare sulla legge. E quando Tatò e Pittella parlarono di “unica risposta utile per formare il valido argine”, il senso fu quello di dare un segnale forte di unità per impedire che su un argomento così delicato e in un momento così importante si rompesse l'unità nazionale contro l'attacco al cuore dello stato. Serviva lo stato, serviva il governo e serviva una posizione omogenea del Parlamento. Per questo ci fu anche chi spiegò che la legge rappresentò un fatto “politico positivo”. Perché in quei giorni di tensione c'era anche un dato che andava al di là del contenuto dei ventidue articoli approvati al Senato: il Parlamento aveva trovato una maggioranza niente affatto scontata, lo aveva fatto in un momento in cui le Camere, l'esecutivo avevano bisogno di dare un segnale di forza e la prima occasione buona fu proprio quella che arrivò al Senato il 18 maggio del 1978. Ma c'è molto di più. (continua). (Foto Ansa).

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    Terza parte

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.