Anticipazione del Foglio del 9 maggio

Così Obama guida un'esperienza collettiva psichica

Stefano Pistolini

A questo punto non si scappa: visti i risultati dell'ultimo martedì delle primarie, viste le indicazioni perentorie dei votometri, dato che sono sempre più i commentatori e gli host che parlano di Barack Obama come “the nominee” e fanno la faccia di circostanza quando arriva il momento degli aggiornamenti su Hillary, bisogna fare un respiro e cominciare la lettura fin qui, programmata “solo nel caso che…”, dal momento che il caso che il senatore dell'Illinois completi la prodigiosa impresa è ben oltre il livello di probabilità.

    A questo punto non si scappa: visti i risultati dell'ultimo martedì delle primarie, viste le indicazioni perentorie dei votometri, dato che sono sempre più i commentatori e gli host che parlano di Barack Obama come “the nominee” e fanno la faccia di circostanza quando arriva il momento degli aggiornamenti su Hillary, bisogna fare un respiro e cominciare la lettura fin qui, programmata “solo nel caso che…”, dal momento che il caso che il senatore dell'Illinois completi la prodigiosa impresa è ben oltre il livello di probabilità. La lettura è quella del documento telematico The Blueprint For Change, (Il Progetto per il Cambiamento), sottotitolo: il piano di Barack Obama per l'America, programma elettorale del candidato di maggior successo (almeno da JFK in qua) tra quanti accusati e scrutinati per il differenziale tra Forma e Contenuti, o tra carismatico magnetismo e fattuale capacità operativa. Perché se è chiaro a tutti che Obama dovrà vincere più battaglie di quelle prescritte a un detentore di una nomination, ovvero che dovrà convincere a votare per lui il maggior numero possibile di democratici e swingers nell'impressionante percentuale di elettori indisponibili a superare il pregiudizio razziale (e poi, se si vuole ragionare per categorie, ci sono “i patrioti”, i veri cristiani”, “i Clinton ultras”, tutti ad alto rischio-fedeltà per Obama) alla fine la questione principale su cui gli avversari lo attaccheranno – quando vorranno colpirlo sopra la cintura – sarà quella che va sotto l'etichetta “empty suit” (“tutto fumo e niente arrosto”) che già rappresenta un florido sottogenere letterario nella saggistica conservatrice degli ultimi 12 mesi.
    La polemica è sul tavolo già da tempo, ma adesso, dopo gli ultimi successi conseguiti sopravvivendo energeticamente alla prima passata di gioco durissimo – le campagne che vanno sotto le sigle “Rev. Jeremiah Wright” e “maneggione Tony Rezko” – adesso Obama deve attrezzarsi per il gran finale. Ovvero deve esporre alla nazione i suoi reali argomenti “di parte” e la proposta di amministrazione che possa assicurargli i voti incerti, i voti disillusi, i voti fin qui assenti e addirittura i voti repubblicani, senza i quali tutta la sua rincorsa si arenarà contro la pacifica normalità americana di John McCain, con la sua prevedibilità, la sua continuità, le sue appartenenze, la sua riconoscibilità, che ne fanno una scelta meno entusiasmante, ma sicuramente più facile da imboccare a cuor leggero tra un barbecue e l'altro.
    The Blueprint For Change, ignorato dai media che hanno continuato a considerarlo un optional dell'esperienza collettiva psichica della quale Obama si è messo alla testa, è un programma organico che prova a sottoporre a una proposta innovativa voci come: Morale, Salute, Economia, Pensioni, Educazione, Energia, Tasse, Agricoltura, Donne, Immigrazione, Povertà, Servizi, Diritti Civili, Politica Estera, Veterani. I problemi però emergono presto: le proposte di casa Obama – in controtendenza con l'esplosività del suo personaggio colto in campagna elettorale e già storicizzato, santificato, spettacolarizzato dai media e dall'immaginario popolare – quasi mai si spingono oltre il repertorio abituale delle piattaforme del partito democratico: copertura sanitaria per tutti coloro che ne sono esclusi, volonteroso sostegno ai programmi educativi, opposizione alle privatizzazioni e all'elevamento delle età pensionabile, riforme fiscali che alimentino il serbatoio dell'assistenza sociale. Solo in politica estera arrivano proposte più personalizzate, ma al tempo stesso più suscettibili di sanguinosi attacchi in caso di confronto con McCain: Obama garantisce di metter fine alla guerra entro 16 mesi, senza basi permanenti, ma con utilizzo di truppe solto per effettuare “operazioni mirate”, nel caso al Qaida metta radici in Iraq. Quanto all'Iran, priorità al dialogo e agli incentivi, in parallelo a una “seria agenda” per la riduzione degli armamenti nucleari e al rilancio della diplomazia come strumento di connessione coi poteri vecchi e nuovi del pianeta. (continua sul Foglio quotidiano)