Il compleanno d'Israele nei luoghi dell'ex premier

Un giorno con Ariel Sharon

Rolla Scolari

La stanza è al primo piano di un moderno edificio, lungo un corridoio tranquillo. Nell'atrio del Dolly Steindling Pavillon, ala del grande complesso ospedaliero Sheba, c'è una caffetteria. L'ex primo ministro-generale d'Israele, Ariel Sharon, colpito da un ictus cerebrale il 4 gennaio del 2006, è ricoverato qui, in come vegetativo. La sua ultima impresa da premier è stato lo storico ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza, nell'estate del 2005.

    La stanza è al primo piano di un moderno edificio, lungo un corridoio tranquillo. Nell'atrio del Dolly Steindling Pavillon, ala del grande complesso ospedaliero Sheba, c'è una caffetteria. L'ex primo ministro-generale d'Israele, Ariel Sharon, colpito da un ictus cerebrale il 4 gennaio del 2006, è ricoverato qui, in come vegetativo. La sua ultima impresa da premier è stato lo storico ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza, nell'estate del 2005. Per portare a termine l'operazione – che fu come un terremoto nel panorama politico israeliano, contestato da gran parte del partito di governo – l'uomo che fu tra i fondatori della destra del Likud s'inventò un nuovo e malleabile movimento di centro, Kadima, strumento con il quale costruì il sostegno politico alla sua mossa senza precedenti.
    Il professor Zeev Rothsein, primario dello Sheba Medical Center, la più grande struttura ospedaliera del paese, a nord di Tel Aviv, specializzata in cure intensive e riabilitazione, non fornisce troppi dettagli medici sulla salute dell'ex leader, spiega soltanto che è attaccato a un respiratore che lo tiene in vita. Della generazione di leader fondatori d'Israele, che compie giovedì sessant'anni, Sharon è uno degli ultimi scomparsi dalla scena. Rimane in campo soltanto il presidente Shimon Peres. Dal giorno della sua entrata in ospedale, all'Hadassah di Ein Karem, sulle colline che circondano Gerusalemme, dove fu ricoverato d'urgenza e operato, nel paese si parla spesso di una crisi di leadership, della mancanza di un uomo forte, dell'assenza di una nuova generazione carismatica.
    Ariel Sharon è parte significativa della storia d'Israele, simbolo d'invincibilità nella mitologia nazionale, comandante militare e leader politico altamente controverso, criticato mitizzato, adorato e molto odiato, sia in patria sia all'estero. Ecco perché, per il sessantesimo compleanno dello stato di Israele, abbiamo ripercorso la sua storia, partendo dall'ospedale e andando indietro, nei luoghi della sua vita privata, della sua carriera militare e di quella politica. Già a pochi minuti dalla nascita dello stato Sharon, giovanissimo, era in azione: nel 1948, nei giorni dopo la fondazione della nazione, con lo scoppio della guerra tra arabi ed ebrei, era un comandante di compagnia nell'Haganah, organizzazione paramilitare ebraica attiva nella Palestina del Mandato britannico fino al 1948, quando divenne il nuovo esercito nazionale. Sulla strada che da Tel Aviv porta a Gerusalemme fu ferito durante uno scontro con una guarnigione della Legione araba giordana, nella battaglia di Latrun. Che la sua figura e la sua eredità politica siano controverse lo raccontano i suoi nomignoli: “Il combattente”, titolo di una sua biografia; “Il macellaio di Beirut”, fu definito in seguito ai massacri dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila in Libano, nel 1982, quando le milizie delle Falangi cristiane uccisero centinaia di civili palestinesi. L'allora ministro della Difesa Sharon fu riconosciuto “indirettamente responsabile” (l'area era sotto controllo dell'Idf) da una commissione d'inchiesta del governo israeliano e fu costretto a dimettersi; “Il bulldozer”, per il sostegno al movimento degli insediamenti e alla costruzione di nuovi villaggi nella Striscia di Gaza e in Cisgordania, dopo la guerra dei Sei giorni del 1967 e l'inizio dell'occupazione militare dei Territori palestinesi; “Arik, re d'Israele”, lo chiamano i sostenitori. Lo amano o lo odiano biografi, storici, politici e giornalisti che hanno seguito in dettaglio gli scandali finanziari e le indagini che hanno visto protagonista anche il figlio Omri (accusato formalmente ad agosto di corruzione politica).
    Per tentare di spiegare Ariel Sharon, Shlomo Avineri, professore di Scienze politiche ma anche ex direttore generale del ministero degli Esteri israeliano, divide la sua vita in tre fasi. La prima è quella militare: “C'è chi lo considera uno stratega troppo ardito e aggressivo, ma in generale in Israele lo Sharon soldato è mitizzato come un eroe”. La seconda fase è quella politica, d'impegno nella destra del Likud, di sostegno del movimento degli insediamenti. “Per anni è stato il simbolo dell'attaccamento alla terra”, contrario alla politica delle concessioni territoriali ai palestinesi. Poi, dice Avineri, “ha attraversato il Rubicone”, con la sua terza fase, quella del disimpegno dalla Striscia di Gaza: ritiro unilaterale nel senso che non ci furono negoziati con la controparte palestinese per portare a termine l'operazione. “Divenne il leader del centro, che parlava in favore della fine dell'occupazione, l'eroe della sinistra e il nemico della destra”, aggiunge il professore. Si tratta però di una fase interrotta, perché l'ictus ha stroncato l'uomo ma anche il processo politico. Certo, la visione dei ritiri unilaterali teoricamente è ancora un'opzione percorribile per alcuni politici, che non osano però farlo sapere: il disimpegno è oggetto di critiche e in molti accusano l'ex premier di aver consegnato Gaza a Hamas, che oggi controlla la Striscia.
    Ehud Olmert, vice premier al momento dell'entrata in ospedale di Sharon, ha vinto le elezioni nel 2006 con un programma che aveva i ritiri territoriali unilaterali dalla Cisgiordania come motivo centrale. Il premier, oggi impegnato in lenti colloqui con l'Autorità nazionale palestinese e che ieri ha incontrato per l'ennesima volta il rais Abu Mazen a Gerusalemme, si vuole erede ideologico del suo predecessore. “Ma Olmert non è Sharon – dice Avineri – non è capace di attraversare il Rubicone servendosi di un'aura di gloria militare e politica”, al contrario gli pesano sulle spalle le immense critiche sulla sua gestione della guerra contro le milizie sciite di Hezbollah nell'estate del 2006.
    “Sharon è un uomo che conosce soltanto due stati d'animo – scriveva di lui Avishai Margalit nel suo ‘Volti d'Israele' – combattere e prepararsi a combattere”. Ma il libro risale al 1998, all'era del pre disimpegno da Gaza. Oggi, al contrario, l'ex primo ministro è criticato per essere la mente di quel ritiro che per molti ha fatto della Striscia una piattaforma di lancio di razzi Qassam sulle cittadine israeliane del sud, come Sderot. Il ritornello, che ormai va spegnendosi con il passare del tempo, è: che cosa avrebbe fatto Sharon se fosse stato ancora primo ministro a Gaza, in Libano contro Hezbollah?
    Ogni tanto ci si chiede che fine abbia fatto e si mette il suo nome su Google per leggere gli ultimi bollettini medici resi pubblici, ma il semplice fatto che il paziente sia stato spostato dall'ospedale Hadassah di Gerusalemme a un reparto di riabilitazione respiratoria allo Sheba ha fatto pensare a molti che i medici non siano pieni di speranze. Persino l'ospedale dove vegeta Sharon, noto per la sua bruschezza e ghiottoneria, ha un qualcosa di mitico. Lo Sheba Medical Center di Tel Hashomer nasce con la fondazione dello stato d'Israele. Il 14 maggio 1948, il giorno dopo la dichiarazione d'Indipendenza, scoppia la guerra tra arabi ed ebrei e sorge immediatamente nel centro del paese un ospedale militare: ancora oggi si possono vedere, tra i diversi padiglioni ultramoderni, le vecchie baracche che servivano allora da sale operatorie o centri di riabilitazione per i soldati feriti in battaglia.  Il primario Rothstein ricorda con fierezza il giorno in cui Sharon si recò in visita a uno dei suoi giovani soldati, in cura presso l'ospedale. Quello stesso militare oggi è capo del comitato di ricerca dell'istituto.
    Il destino ha voluto che Sharon finisse i suoi giorni a pochi chilometri dal suo villaggio natale, uno delle prime cooperative agricole d'Israele, Kfar Malal. Le basse e vecchie casette bianche dal tetto a spiovente, protette da siepi, sembrano lottare per mantenere il proprio spazio vitale tra il muro dell'autostrada che corre a nord, verso Haifa, un brutto centro commerciale e un'altra super strada. Nel 1928, quando Sharon ci nacque con il nome di Ariel Scheinermann, gli abitanti avevano tutti un piccolo appezzamento di terra di eguale misura e i biografi ricordano come soltanto la famiglia del futuro primo ministro avesse protetto la sua proprietà con una staccionata. Avishai Margalit individua in questa gelosia familiare l'origine del forte senso di territorialità del futuro leader israeliano.
    All'inizio degli anni Settanta, quando comincia la sua carriera politica, Sharon trova un nuovo territorio che farà da sfondo a visite di stato e colloqui diplomatici: il suo ranch del Negev, quattro chilometri quadrati di appezzamenti su una stretta strada tra i campi che porta a Sderot, in un'area ad alto rischio per l'arrivo di Qassam. Qui, a pochi metri dal recinto delle mucche oggi vuoto, nella sua fattoria superfortificata che adesso pare abbandonata, dove è sepolta l'adorata moglie Lily morta nel 2000, Sharon invitava i leader in visita in Israele quando era primo ministro.
    Mentre il paese prepara le celebrazioni per i suoi sessant'anni e ricorda il ruolo dei leader del suo corto passato, mentre Olmert è indagato e si aspetta la pubblicazione dei dettagli sul suo caso, mentre continuano negoziati sottotono tra palestinesi e israeliani e regolarmente il segretario di stato americano Condoleezza Rice viaggia nella regione, senza fare ormai più notizia, con Gaza nelle mani di Hamas, l'Iran concentrato sul suo programma atomico e Hezbollah sul proprio riarmo, Israele sembra avere nostalgia dei leader del passato, che siano essi controversi come Sharon o no, e non è raro sentire qualcuno chiedersi dove sarebbe oggi il paese se quell'ictus cerebrale non avesse fermato l'allora premier che ha inventato il centro. Per Shlomo Avineri, la sua intuizione dei ritiri unilaterali – scartata e messa da parte con la vittoria alle urne palestinesi di Hamas, gli scontri armati tra il movimento islamista e il gruppo del rais Abu Mazen Fatah, la divisione anche politica tra Gaza e Cisgiordania – resta comunque un'opzione possibile: “I negoziati – dice – non stanno portando da nessuna parte e tra un paio d'anni potremmo ritrovarci con un primo ministro che deciderà di fare quello che Olmert aveva in programma di fare subito dopo la sua elezione”: ritirarsi dalla Cisgiordania unilateralmente. L'eredità di Sharon.