Dietro il lamento di Burma, una catastrofe annunciata

Diecimila morti e tremila dispersi in Birmania per il ciclone Nargis

Redazione

Il lamento birmano fa di nuovo notizia e la disperazione gela il sangue. Una tragedia di proporzioni gigantesche la cui entità ormai è sulla bocca di tutti: almeno 10.000 morti, centinaia di migliaia i senzatetto, un numero imprecisato di dispersi. Il regime sgrana cifre che non sai come interpretare: più elevato il conteggio delle vittime dichiarate, più forte la pressione internazionale per gli aiuti, più numerosi gli stranieri che entrano nel paese rompendone l'isolamento imposto dalla giunta.

    Il lamento birmano fa di nuovo notizia e la disperazione gela il sangue. Una tragedia di proporzioni gigantesche la cui entità ormai è sulla bocca di tutti: almeno 10.000 morti, centinaia di migliaia i senzatetto, un numero imprecisato di dispersi. Il regime sgrana cifre che non sai come interpretare: più elevato il conteggio delle vittime dichiarate, più forte la pressione internazionale per gli aiuti, più numerosi gli stranieri che entrano nel paese rompendone l'isolamento imposto dalla giunta. Non è interesse di Naypyidaw esagerare la portata del disastro e questo fa temere un bilancio ancora più drammatico. Finora non ci sono state richieste di soccorso ufficiali, solo segnali ambigui di apertura ad un intervento umanitario. Uno dei siti dell'esilio avverte che le organizzazioni di assistenza stanno ancora aspettando il permesso per cominciare le operazioni. Il ciclone era stato annunciato giorni prima che si abbattesse sul territorio birmano: il 29 aprile un bollettino pubblicato sul sito Tropical Storm Risk avvisava che, in base a rilevazioni della marina e dell'aviazione statunitensi, una tempesta tropicale di forte intensità avrebbe colpito il Myanmar nelle prime ore della mattina del 3 maggio successivo. Nessuno che abbia interpellato le autorità birmane su quali misure avessero intenzione di adottare; nessuno che si sia preoccupato semplicemente di lanciare l'allarme. Oggi è il giorno delle lacrime, domani sarà tutto dimenticato un'altra volta.

    di Enzo Reale

    Ripubblichiamo l'articolo di Massimo Morello sulla fuga dei monaci dalla Birmania apparso sul Foglio del 20 febbraio.

    "Vengo tutte le sere a meditare. Ti rende libero”, dice il vecchio professore di inglese alla Pagoda Sule, nel centro di Rangoon. E' uno dei tanti che si ritrovano qui in cerca di un po' di fresco e compagnia, per adempiere al precetto buddhista della meditazione. Ha voglia di chiacchierare, di esercitarsi “nella lingua di Shakespeare”. Inevitabilmente il discorso cade sulla “rivolta di zafferano”. La Pagoda Sule era uno dei fulcri delle manifestazioni del settembre scorso. “In quei giorni erano tutti contenti. Come a una festa: pensavano di avere la vita nelle proprie mani – ricorda – Noi birmani siamo convinti che nascere qui e ora sia una questione di karma: dobbiamo scontare i peccati di una vita precedente. Molti pensano che sia meglio rassegnarsi, altrimenti nella prossima vita potrebbe andar peggio: magari rinascere cane”, spiega con un lieve sorriso. Poi, con aria di scusa, aggiunge che avrebbe una richiesta da farmi. Che la chiacchierata sia stata un pretesto per spillare soldi? Invece domanda se per caso ho una copia di “Freedom from Fear”, una raccolta di scritti di Aung San Suu Kyi. Il professore è uno dei pochissimi che osi pronunciarne il nome anziché riferirsi a lei come “la Signora”. Non ce l'ho, ho evitato di portare qualunque cosa potesse crearmi problemi. E lui, non ha paura di essere scoperto? Molta gente è finita in prigione per questo. “Ho settant'anni – risponde – E poi, come diceva Shakespeare, ‘è una bella prigione il mondo'”.
    Quel professore è uno dei personaggi spesso necessariamente senza nome che mettono in scena, vita dopo vita, una storia lunghissima ma nota da meno di vent'anni. Nel 1990, in seguito a violente manifestazioni di piazza, il governo militare indisse libere elezioni ma poi rifiutò di riconoscere la vittoria della National League for Democracy di Aung San Suu Kyi, figlia di Aung San, l'artefice della Birmania indipendente. Da allora la Signora è confinata agli arresti domiciliari, protetta dall'opinione pubblica mondiale e dallo scudo del premio Nobel per la Pace. Da allora la Birmania (ribattezzata Myanmar nel 1989 per cancellare ogni residuo coloniale) è divenuta il simbolo dello stato del Grande Fratello, incarnato nei generali dell'Spdc lo State Peace & Development Council.
    Quella storia si sta ripetendo. La rivolta di settembre si è conclusa con una trentina di morti e un migliaio di arresti, che portano il totale dei prigionieri politici a circa duemila. Poi, mentre tutto il mondo esprimeva la propria condanna, i generali hanno indetto per il 10 maggio un referendum popolare. I birmani saranno chiamati ad approvare o no la nuova Costituzione, base per una “democrazia fiorente e disciplinata”. Questa ennesima road map si dovrebbe concludere con le elezioni fissate nel 2010. La giunta sostiene di voler restaurare la democrazia, ma che un processo troppo rapido comporterebbe il rischio di disintegrazione del Myanmar, composto da una moltitudine di etnie.
    “In Birmania non si può essere sicuri di niente – dice Soe Aung, un responsabile del Forum Democratic of Burma residente a Bangkok – Siamo sicuri del ‘no' alla riforma costituzionale. Il popolo sa che la nuova Costituzione è un inganno. Ma ci sono gruppi di birmani che potrebbero votare ‘sì', per pressioni economiche o politiche, per esempio quelli provenienti dallo Yunnan”. La nuova Costituzione prevede che il presidente sia il capo dello stato, ma il vero potere è tutto nelle mani del comandante in capo del Tatmadaw, le Forze armate, che dipendono da lui e non sono sottoposte ad alcun controllo politico. Ha il potere di designare i militari cui è riservato il 25 per cento dei seggi del Parlamento: il che lo rende arbitro di ogni decisione, dato che la Costituzione esclude emendamenti al testo costituzionale senza il consenso di oltre il 75 per cento dei parlamentari. Nel capitolo sui poteri del Tatmadaw, si stabilisce che le forze armate hanno la responsabilità di “salvaguardare la Costituzione dello stato”. Un dovere che può essere reclamato per far fronte a uno “stato di emergenza” che l'autorità militare può dichiarare in qualunque momento. Nel qual caso tutti i poteri, legislativo, escutivo e giudiziario, sono trasferiti al comandante in capo. Come ulteriore salvaguardia allo status quo, la Costituzione esclude che Suu Kyi possa diventare presidente né membro del Parlamento perché sposata a uno straniero. Norma applicabile anche a molti esponenti dell'opposizione, che, per ovvi motivi, hanno trascorso parte della loro vita e si sono formati una famiglia all'estero.
    Il referendum è una tale beffa che chiedo a Soe Aung che senso abbia discuterne, invitando a votare “no” come se si trattasse di una consultazione democratica. Per non apparire l'arrogante occidentale che giudica tutti, mi scuso per la “stranezza” della domanda, dovuta alla mia incapacità di comprendere a fondo la questione birmana. “Non ci sono strane domande in Birmania – risponde – Abbiamo alternative? Non possiamo far altro che chiedere il dialogo. Se vuoi saperne di più vai alla National League. A Rangoon. Corri il rischio”.
    “La chiave è l'economia”, dice il giornalista dell'Nld all'appuntamento nel quartier generale di Rangoon, mentre sfoglia l'Economist che gli ho recapitato a nome di un amico di Bangkok. Arrivarci è facile: tutti i tassisti sanno dov'è e portarci gente non è reato. Basta non entrare. Si trova a pochi passi dalla Shwedagon, l'immensa pagoda che è uno dei luoghi più sacri di tutto il sud-est asiatico, all'incrocio con una via di botteghe di articoli religiosi. Di fronte c'è un tradizionale tea shop con i bassi tavolini all'aperto dove i birmani passano gran parte del tempo libero. Qui sono clienti fissi gli agenti dell'intelligence dell'Spdc, che fotografano chiunque entri. All'interno il quartier generale dell'Nld appare come una modesta casa birmana, con qualche bandiera e vecchi manifesti alle pareti anziché le immagini di un venerabile monaco o un altarino degli spiriti. C'è odore di cibo e spezie e sul tavolo dove c'è ancora traccia di nga pi, la pasta di pesce fermentato che accompagna tutti i piatti.
    “La crisi economica è stata il motivo scatenante delle manifestazioni di settembre. E adesso va peggio: tra un po' non ci sarà più riso. La storia è politica, ma la chiave è economica”, continua il giornalista. Per far fronte all'emergenza, non accelerare la crisi e prepararsi alle elezioni, l'Nld ha scelto di partecipare al referendum anziché boicottarlo. “Non ci aspettiamo nulla da loro. Pensano di vincere, non possono ammettere, nemmeno con se stessi, di essere nel torto. Partecipare al referendum e votare ‘no' è un modo di testimoniare la nostra presenza, dare un segnale. I generali diranno di aver vinto ma sapranno di aver perso. Il referendum è un'opportunità e una sfida”.
    “Passo dopo passo sappiamo dove stiamo andando”, precisa il secondo ospite, eletto senatore dell'Nld nel 1990. Proprio per questo le sue parole appaiono ancor più sorprendenti, ispirate a un senso gandhiano della politica. “Nella nostra esperienza il mezzo migliore è il dialogo. Deve essere molto chiaro che siamo pronti a lavorare con il regime”. Ma non è così ingenuo: si riferisce ai nuovi quadri di Tatmadaw, quella generazione di comandanti di divisione tra i 40 e i 50 anni disponibili anch'essi al dialogo e che si considerano, come ha dichiarato uno di loro, “la reale speranza per il paese”. Forse puntano a una grande coalizione, anche se è molto difficile applicare un modello del genere alla realtà birmana. “Sì: non possiamo pensare di fare a meno dei militari – spiega – La Birmania è un paese complesso, formato da realtà molto diverse”, aggiunge, probabilmente pensando ai problemi etnici che potrebbero scatenarsi con la democrazia. I generali al potere, però, non sembrano altrettanto disponibili. All'opposizione non è consentito organizzarsi, gli attivisti dell'Nld non possono spostarsi all'interno della Birmania, la giunta ha respinto la proposta di una missione di osservatori. “In questo momento sono fondamentali le pressioni internazionali – dice il senatore, ribadendo la richiesta (quasi un'invocazione) di tutta l'opposizione birmana – Dopo settembre si è fatta sentire in modo molto forte. Ma poi si è ridotta. In realtà Gambari e Aung San Suu Kyi hanno avuto soltanto cinque incontri in sei mesi”.
    Qui nessuno lo dice ma per tutti, militari e opposizione, Ibrahim Gambari è “l'uomo nero”. In Asia il colore della pelle è un elemento di discriminazione fortissimo (e non il solo). Forse è anche da questa percezione che deriva la frustrazione dell'inviato delle Nazioni Unite. “La Birmania è ricca di risorse e in posizione strategica: tutti hanno bisogno di una Birmania stabile e sviluppata e questo regime non la può dare”, aggiunge il senatore. La Birmania, infatti, sta diventando una specie di laboratorio in cui si sperimentano i futuri, possibili equilibri dell'area. I cinesi sono i più interessati allo sfruttamento delle sue risorse e hanno sostenuto la giunta per assicurarselo, ma ora sono esasperati dall'inefficienza e dalla corruzione dei generali, tanto più che questi sono coinvolti nel traffico di droga che attraversa il loro confine. Si rendono conto che un incondizionato appoggio all'Spdc potrebbe comprometterli in futuro e far passare il paese nell'orbita statunitense. I thailandesi, a loro volta, non sarebbero felici di una Birmania troppo ricca, ma per loro è indispensabile che il paese sia stabile, così da garantire la sicurezza dei gasdotti da cui ricevono il 20 per cento del fabbisogno nazionale di energia e delle strade in costruzione come sbocco verso l'India. “Il problema birmano è il problema di tutte le nazioni intorno. L'economia è la chiave”, ripete il giornalista battendo il dito sulla preziosa copia dell'Economist.
    Il giorno seguente sul New Light of Myanmar, il giornale ufficiale in inglese, si legge la denuncia delle attività di “certi poteri stranieri” che, “per interferire negli affari interni del Myanmar”, inviano i “loro emissari” in visita al quartier generale dell'Nld. “I businessmen cercano di spingere per la democrazia”, dice l'attivista birmano (si definisce così, rifiutando l'appartenenza a qualunque gruppo) incontrato a Bangkok che mi ha consegnato la copia dell'Economist. Si riferisce a quella generazione di businessmen che, come ne “Il Padrino”, stanno riconvertendo i traffici di droga di famiglia in società che operano in tutta l'Asia. Sinora hanno monopolizzato l'economia birmana utilizzando le loro connessioni con il regime, ma adesso vogliono espandersi e uscire dalla lista nera del dipartimento del Tesoro americano. L'economia quotidiana birmana, però, è molto lontana dagli uffici delle multinazionali di Singapore. “I generali hanno cominciato a comperare i voti dei villaggi. Li pagano con riso e acqua”, spiega l'attivista.
    “Anche questo è la Birmania” esclama la ragazza che mi accompagna lungo la Inya Road, la strada tra il campus dell'università di Rangoon e la riva meridionale del lago Inya che è il principale scenario di Thingyan, la festa dell'acqua. Si celebra in occasione del capodanno lunare, fissato convenzionalmente dal 13 al 15 aprile, e in quei giorni la Inya Road si trasforma in un torrente in piena. Dai palchi allestiti sulla strada gruppi di giovani rovesciano tonnellate d'acqua su altri giovani che la percorrono a piedi o a bordo di pick-up e jeep scoperte, ballando al suono di techno music, in un'atmosfera tra la kermesse popolare e il rave. “La gente si scatena, evade da una società conformista, dimentica i pensieri. Guarda: bagnano anche i soldati”. Forse è per far dimenticare i pensieri che quest'anno la giunta ha prolungato di un giorno la festività. “La festa finisce qui, più avanti non si può andare: c'è la casa della Signora”, avverte la ragazza quando, totalmente fradici, arriviamo sotto l'ultimo palco risalendo il corso della Inya. Intanto anche il Thingyan è diventato occasione di arresti. Secondo i militari avrebbe potuto dare l'occasione di attentati e per sventare questa minaccia sono stati arrestati sei giovani accusati di preparare attacchi “contro la Costituzione” e un membro della Nld che avrebbe seguito “corsi di esplosivi in una nazione vicina”. In questo clima, in cui anche l'acqua di Thingyan sembra trasmettere la paura, il comportamento dell'opposizione appare ancor più sorprendente. Non hanno paura? Non pensano che il popolo abbia paura e non risponda alla mobilitazione? Risponde Sann Aung, membro del Parlamento eletto nel 1990 e oggi rifugiato all'estero: “Questo è il dilemma: hai paura un giorno o hai paura tutta la vita?”.
    “Dove vado? India? Thailandia? Non mi resta che la Cambogia” dice il monaco con cui trascorro un paio d'ore tra i tazaung, i padiglioni per la meditazione, attorno alla pagoda Shwedagon. La sua è al tempo stesso una sintesi geopolitica sui mutati equilibri dell'area e una perfetta dimostrazione dei corsi e ricorsi storici. La Cambogia, che nell'immaginario occidentale è ancora legata ai “killing fields”, per i disperati dell'Asia sta diventando un modello. In Birmania c'è gente che fugge ovunque: per cercare lavoro, come i clandestini morti soffocati in un camion che li portava in Thailandia, o per motivi etnici, come i Karen che finiscono in quelle succursali dell'inferno che sono i campi al confine thai. I Rohingyas, una popolazione islamica dell'ovest, perseguitati dai militari, scappano addirittura in Bangladesh, dove sopravvivono portando i risciò. “Nel mio monastero c'erano un centinaio di monaci. Molti sono stati arrestati, altri sono stati costretti a tornare ai loro villaggi. Il mio Maestro non può più avere discepoli. Adesso medito da solo – dice sconsolato il giovane monaco.
    “I monaci sono arrabbiati. Ancora non è finita. La questione è quando, ma si stanno preparando per un altro scontro”. Questa è l'opinione di Larry Jagan, analista di affari del sud-est asiatico. “La giunta non se rende conto, non hanno l'idea di quello che sta succedendo”. A suo parere si è creata una situazione di estrema confusione tra generali che vogliono mantenere il potere arrestando migliaia di persone, colonnelli che vorrebbero prendere il loro posto, i cinesi che spingono per una forma di “benevolente dittatura”, minoranze etniche con cui fare i conti. Gli unici che sembrano trovarcisi a loro agio sono i russi: “All'ambasciata di Yangon continuano a organizzare party”. Alla fine anche Larry ammette che è quasi impossibile capire che cosa potrà accadere. “Il fatto è che il resto del mondo è cambiato. La Birmania no”.
    “Ci sono i Bodaw e i Nat. Per aiutarti devo capire a chi puoi rivolgerti”, dice una bedin saya, una maga, di Rangoon che legge la mano e si vanta di essere una medium. Lei non s'interessa di politica, ma in un certo senso la sua spiegazione aiuta a capire il paese più di ogni analisi. A capire che non si può capirlo. “I Bodaw sono santi, gente di qui che praticava la meditazione. I Nat sono morti di morte violenta e prima di morire erano famosi. Ecco: la principessa Diana è diventata un Nat”. Poi aggiunge che se sei una brava persona, allora lei si può rivolgere ai santi per ottenere il loro aiuto. E se sei cattivo? “Allora parlo agli spiriti. Esaudiscono i tuoi desideri anche se sei cattivo”.