Dal Foglio del 26 aprile

I presagi del grande strappo

Alessandro Giuli

Gli ultimi messaggi prima della festa di fine campagna elettorale con il Cav. potevano intimorire: “Forza, siamo a un passo dalla vittoria. Roma è nostra”. E' in questa dimensione proprietaria del possibile trionfo di Gianni Alemanno che si svolge adesso l'incredibile ribaltamento degli stati d'animo romani. Per la prima volta da vent'anni la destra postfascista è a un millimetro dal potere capitolino. Gli ultimi sondaggi riservatissimi maneggiati da Alemanno hanno un che di allucinatorio: due punti sopra Francesco Rutelli. Non era mai successo. Ma è possibile? In queste ore Roma sta interrogando se stessa per capire se sta davvero andando incontro all'inimmaginabile.

    Roma. Gli ultimi messaggi prima della festa di fine campagna elettorale con il Cav. potevano intimorire: “Forza, siamo a un passo dalla vittoria. Roma è nostra”. E' in questa dimensione proprietaria del possibile trionfo di Gianni Alemanno che si svolge adesso l'incredibile ribaltamento degli stati d'animo romani. Per la prima volta da vent'anni la destra postfascista è a un millimetro dal potere capitolino. Gli ultimi sondaggi riservatissimi maneggiati da Alemanno hanno un che di allucinatorio: due punti sopra Francesco Rutelli. Non era mai successo. Ma è possibile? In queste ore Roma sta interrogando se stessa per capire se sta davvero andando incontro all'inimmaginabile. Rutelli ha paura e non è abituato ad averne, né a dover recuperare terreno. Altrimenti non avrebbe preteso da Mentana la diretta di ieri a Matrix nell'ultimo faccia a faccia con lo sfidante. Alemanno preferiva la registrazione pomeridiana inizialmente concordata. Più che altro per ragioni psicologiche, ma pure perché Alemanno avverte l'agguato in arrivo durante la diretta, risuonano in lui le voci, le accuse opache contro una destra che rimesterebbe nel torbido dello stupro avvenuto a La Storta. Si temono bassezze infamanti. Con il trascorrere dei minuti i moti parossistici trovano asilo nell'uno e nell'altro candidato. Alemanno in realtà tiene d'occhio le movenze dei suoi consanguinei quanto quelle degli avversari. La sbruffonata del camerata ubriaco d'illusioni rancorose è quel che adesso va evitato in ogni modo. La sfida per Roma riflette almeno in parte la lacerazione nazionale in fondo contenuta da Berlusconi e Veltroni. A Palazzo Chigi non sta per arrivare il male assoluto. Ma la capitale conserva ancora una peculiarità ingigantita dalla credibile prospettiva di un sindaco ex fascista. Per capire si può fare un paragone con Milano. Lì alle ultime comunali si sono contesi il potere Letizia Moratti e l'ex prefetto Bruno Ferrante: separati dai partiti di riferimento, accomunati però da un patriottismo urbano sul quale non era possibile esercitare il veleno dell'irriducibilità. Nessun milanese di sinistra si è sentito espropriato di un giacimento simbolico vitale, vedendosi sconfitto dalla figlia di un partigiano educata al buon uso di mondo. E viceversa nessun conservatore avrebbe patito l'ombra di chissà quale sovietismo inconscio nell'incedere questurino di Ferrante. Un altro mondo.
    A Roma qualcuno anche fra i migliori tifosi di Rutelli ha ceduto al meccanismo riflesso di gridare alla marcia delle camicie nere. E' un delirio di circostanza. Sarebbe terribilmente sconsiderato insistere nel tentativo d'impiccare Alemanno al proprio passato. Però quel passato c'è, fa parte della memoria romana e italiana, alimenta un cozzar di armature che si deve saper guardare. Per rifiutarne il contorno strumentale, certo, epperò anche per usare clemenza nei confronti di una città mezza impazzita mentre rivive emozioni cui non era più avvezza. Anche per questo non riconoscersi tra vincitore e vinto, domani, sotto le statue del Campidoglio, sarebbe nefasto.
    Siccome adesso percepisce la quasi vittoria, è proprio Alemanno il primo a non voler passare come quello che “si prende Roma”. L'ex missino è troppo figlio d'una diversità inestirpabile per volere oggi apparire oltremodo diverso dai possibili vinti. Da Veltroni e Rutelli e dal quel loro morbido totalitarismo culturale romano. Allo stesso tempo è appunto su questa distonia acuta tra il potere inerte del centrosinistra e la foga volitiva dei nuovi arrivati che Alemanno ha incardinato la propria campagna elettorale. A forza d'evocare in tutta Italia il demone dell'insicurezza, della barbarie domestica, dell'uomo non-più-nero ma comunque straniero e terrifico agli occhi di chi si lascia magnetizzare dalla paura, poi succede come nelle sedute spiritiche: la larva prende vita, incombe, galoppa, terrorizza. Oppure si ribella. Ovvio che nulla si alimenta del nulla: se Alemanno ha trovato nell'ordine pubblico e nei miasmi periferici i suoi argomenti più efficaci significa che c'era materia su cui lavorare. Ma è una materia incendiaria intorno alla quale a un certo punto bisogna decidere se scansarsi dai lapilli o rischiare di prendere fuoco. Un gioco da duri che è al tempo stesso la carne cruda del Lupomanno (così ancora da qualche parte viene appellato) e una visione sconvolgente per chi da lui potrà essere sconfitto. Anche da qui proviene l'ansia dell'ex fascista che cerca di non forzare dopo aver scaldato il ferro. Alemanno avrà vinto, semmai, perché ha saputo incarnare un modello violentemente opposto alla dolce decadenza veltroniana, ma la sua scommessa più difficile sta nel non apparire troppo diverso, se non inconsulto. I suoi collaboratori più stretti, come il neodestrista Umberto Croppi, hanno seguito passo passo il piano spericolato di tenere insieme l'Opus Dei (Antonio Bonfiglio) e i camerati delle case occupate (il Foro 753), e poi ciacolare a intermittenza con i filopalestinesi e la Fondazione Kadima, ascoltare i bardi delle catacombe nere e il pianista David Helfgott, scritturare i cicisbei in cerca di notorietà e il più consumato Enrico Montesano. Pare ce l'abbia fatta, Alemanno, ma ha ancora bisogno di dire che il 25 aprile vuole essere della partita antifascista, deve allontanare da sé l'immagine dei saluti romani che gli venivano rivolti dai pavidi o dai convertiti quando entrò da ministro al dicastero dell'Agricoltura. E infine ha l'obbligo di contenere i suoi, sa bene che dal dopoguerra in poi la destra parlamentare produce un democratico ogni nove avanzi di sezione. La sinistra lo teme anche per questo motivo e perché sa che Alemanno è generoso coi propri “lanzichenecchi”. Quando conquista una posizione non lascia indietro nessuno. Ha fatto così al ministero, così alle politiche nazionali, sdebitandosi come poteva nella compilazione delle liste. Farà così, potendo, nel cerchio magico che ha per centro il Campidoglio e per circonferenza chissà. Darà lavoro ai commilitoni. Altro dubbio che irrancidisce i cuori della sinistra romana: se Lupomanno sale al potere, se la gente già gli chiede di firmare autografi per la strada, se molto più di Fini è riuscito a trovare un modus vivendi con Berlusconi, quanto male potrà fare ai vinti? Lui risponderebbe con la promessa di non saccheggiare l'Urbe e le sue antiche rendite gauchiste; e con il giuramento di non avere parenti leghisti. Ma di questi tempi Roma non è più città così grassa da sfamare tutti i lupi.