Dal Foglio del 22 aprile

Se W perde Roma

Lodovico Festa

Forse il centrodestra non conquisterà Roma: il sistema di potere rutellian-veltroniano è imponente e la sua volontà di sopravvivere è disperata. Le genti italiche per antica sapienza tendono, poi, a controbilanciare i successi come quello recente del centrodestra alle politiche: non si vuole che qualcuno sia troppo forte.

    Forse il centrodestra non conquisterà Roma: il sistema di potere rutellian-veltroniano è imponente e la sua volontà di sopravvivere è disperata. Le genti italiche per antica sapienza tendono, poi, a controbilanciare i successi come quello recente del centrodestra alle politiche: non si vuole che qualcuno sia troppo forte. Infine, i vari establishment – compresi quelli in tonaca – che pure frequentano Gianni Alemanno, hanno con Walter Veltroni rapporti speciali. Insomma c'è più di un motivo per cui Francesco Rutelli ce la può fare. Eppure il rischio di sconfitta è forte. La follia prodiana è stata quella di far imbestialire i ceti medi, e in particolare il lavoro autonomo, in modo spropositato: magari si poteva tassarli ma pure insultarli, trattarli come una schifezza, è stato da mentecatti. Si può (forse si deve) cercare di liberalizzare i taxi, ma discutere dodici mesi con Cgil-Cisl-Uil sul niente della non revisione della legge Biagi e sui ritocchini alla Maroni sulle pensioni, e neanche dodici secondi con gli autisti delle auto pubbliche, prima ancora che un'ingiustizia è stata una fesseria. Il Pci nel secondo dopoguerra è stato ricostruito da un Palmiro Togliatti testimone dello scontro tra operai e bottegai nel 1921 e delle disgrazie che questo aveva portato. Così nel 1945 si è formato un partito che aveva nel dna l'evitare lo scontro con i lavoratori autonomi. Ci si rilegga il discorso togliattiano primi anni 50 “Ceti medi e Emilia rossa”. Dovevano venire quei tre geni di Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa e Vincenzo Visco, accompagnati dall'inconcludente Piero Fassino e dagli ilari deliranti bertinottiani, per rovesciare questa impostazione non priva di conservatorismo ma d'indubbia efficacia politica.


    La rabbia dei ceti medi è esplosa in Roma che sulle botteghe fonda parte decisiva della sua fortuna. E si somma con il forte scontento di larghi settori delle periferie, che però da soli senza i ceti medi non andrebbero da nessuna parte e si rifugerebbero come al solito in un misto di voto clientelare e di protesta. In questa situazione vi è, peraltro,  una responsabilità di Veltroni che ha governato male la Capitale, peggio di quanto avesse fatto Rutelli.  E anche per un motivo paradossale: Rutelli siccome non era del Pci, doveva delegare elementi decisivi della sua azione ad assessori del Pci e, poi, del Pds, a ottimi amministratori come Goffredo Bettini, Walter Tocci, Gianni Borgna. Veltroni, invece, era il “capo vero” ed era quindi nella condizione di lasciare il suo segno che da sempre è quello di privilegiare il virtuale sul concreto. Realizzando così anche qualche buon risultato ma con tante buche nelle strade, campi nomadi lungo il Tevere e così via. L'idea era di pareggiare le evidenti inefficienze dell'amministrazione con i buoni rapporti tenuti anche con il centrodestra. E poteva funzionare. Aveva retto nel passato. Tutto bene se, per colpa di Prodi, non si fossero infilate anche “le masse” nella consultazione elettorale.



    Due scenari possibili


    Adesso nessuno sa bene che cosa può capitare. E' evidente che il voto di Roma apre due scenari possibili: se vince Rutelli, Veltroni conta ancora su un centro di potere formidabile e che può funzionare da cerniera tra lavoro di ricostruzione del Pd al sud e quello dello stesso segno da fare al nord. Ma se perde gli mancherà un baricentro. Il nervosismo con cui il leader del Pd controbatte alle ragionevoli considerazioni di Sergio Cofferati sulla necessità di formare un gruppo dirigente nordista, capace di fare i conti con la società italiana che va dall'Emilia in su, senza inventarsi industriali fuori corso come i Colaninno jr e i Calearo, o signore della buona società come le Afef e le Sabine Ratti, nasce dal fatto che senza Roma, ciò che resterà “veramente” al Pd sarà ancora la Lega delle cooperative, una Cgil che via Achille Passoni (passato dalla segreteria della Cgil al Parlamento) e Valeria Fedeli (intrepida riformista segreteria dei tessili Cgil) potrebbe tornare cofferatiana (primitiva versione, cioè ragionevole). A rendere sospettoso Veltroni è, poi, il fatto che l'operazione “Pd nordista” è stata varata dalla Repubblica, scocciata di vedere il leader “democratico” schiacciato sulle posizioni del Corriere della Sera. Questo fatto, peraltro, ha prodotto anche l'intervento di Prodi (il che non si sa se alla fine è un bene per Veltroni) che odia Carlo De Benedetti da quando quest'ultimo gli ha annunciato il prossimo, puntualmente avveratosi, pensionamento. Se si perde Roma, se al posto della dolce protezione “mediatoria” dei Cesare Geronzi e dei Paolo Mieli, arriva l'onda emiliana sponsorizzata De Benedetti, è evidente come, nonostante il suo aspetto e il modo di ragionare assai dimesso, il vero nuovo protagonista diventa Pierluigi Bersani. D'altra parte Massino D'Alema un anno fa sconsigliò al ministro dell'Industria uscente di sfidare Veltroni (cosa che sarebbe stata benedetta per dare un po' più di carattere al nuovo partito), dicendo che la corsa dell'ex sindaco di Roma sarebbe stata di breve durata e che era bene preparare le basi per una successione. Naturalmente i piani dalemiani si avverano sempre in modo ingarbugliato e l'ex ministro degli Esteri non gode di particolare salute politica dopo il voto di una Puglia e di una Campania direttamente gestite da lui, e quello della Calabria del suo pupillo Marco Minniti e quello della Sicilia della sua fan Anna Finocchiaro.


    Però, nonostante tutte le possibili considerazioni, l'uomo che naturalmente combina l'alleanza tra Emilia Rossa e sfera di influenza debenedettiana resta senza dubbio Bersani.