Mourinho all'Inter?

Agli altari della boria

Beppe Di Corrado

Il tabloid inglese Sun è sicuro: Mourinho sarà il prossimo allenatore dell'Inter. L'accordo sarebbe già stato raggiunto con il presidente Massimo Moratti appena dopo l'annuncio di Roberto Mancini di voler lasciare la panchina nerazzurra pochi minuti dopo l'eliminazione in Champions League ad opera del Liverpool.

Ripubblichiamo il ritratto che Beppe Di Corrado fece dell'allenatore portoghese il 26 aprile 2005.

    Il tabloid inglese Sun è sicuro: Mourinho sarà il prossimo allenatore dell'Inter. L'accordo sarebbe già stato raggiunto con il presidente Massimo Moratti appena dopo l'annuncio di Roberto Mancini di voler lasciare la panchina nerazzurra pochi minuti dopo l'eliminazione in Champions League ad opera del Liverpool. Le esternazioni di Mancini vennero bollate come affrettate e l'allarme rientrò inpochi giorni. Secondo il Sun, però, Moratti ha visto l'ex allenatore del Chelsea al quale avrebbe offerto la guida della sua Inter dalla prossima stagione. Con Mourinho arriverebbero a Milano anche Frank Lampard e Didier Drogba.

    Mentre i siti Internet dei maggiori quotidiani parlano della notizia, ripubblichiamo il ritratto che Beppe Di Corrado fece dell'allenatore portoghese il 26 aprile 2005:

    Alla fine è arrivato lui, che si crede inferiore soltanto al padreterno. Un gradino solo, però. Egocentrico e sbruffone, irritante e arrogante, presuntuoso e bisbetico, tracotante e insolente, superbo e meschino. Uno che sa tutto lui e solamente lui, che non c'è nessuno che può fermarlo: “Dio. E dopo Dio, io”. Un altro santone. Il calcio pensava di averli visti tutti i tipi così: Francisco Maturana, Sebastiao Lazaroni, Joann Cruyff, Louis Van Gaal. Quelli alla sono-arrivato-io-vi-faccio-vedere-come-si-gioca-a-pallone. Quando pensavi che fossero finiti, quando ti eri abituato agli allenatori normali, quelli io-non-c'entro-nulla-è-merito-dei-ragazzi, eccone un altro: José Mario Santos Mourinho Felix. Felice, perché lui si sente sempre contento quando è in cima al mondo: il nomignolo l'ha scelto perché crede nel destino e perché è lo stesso del padre.
    José è il signore brizzolato che ogni mese va a prendere lo stipendio da Roman Abramovich e alla fine dell'anno conta 7,5 milioni di euro. José è il signore che dodici anni fa faceva il professore in un liceo di Setubal, che undici anni fa era un traduttore d'inglese nello Sporting Lisbona, che cinque anni fa si trasformava per la prima volta in allenatore vero, che sei mesi fa è diventato il tecnico più pagato al mondo. Lo è perché è bravo, anzi bravissimo. E' un fenomeno che ha tradotto le sue capacità in due scudetti portoghesi, una coppa del Portogallo, una coppa Uefa, una Champions League. Tutti conquistati con il Porto. E' stato così che Mourinho s'è presentato all'uomo più ricco del calcio europeo disposto a spendere fortune pur di prendere una coppa o un piatto d'argento in mano. E' stato così che è arrivato a Londra e oggi traghetta il Chelsea verso la vittoria in campionato che manca da cinquant'anni (1955), e lo ha già fatto arrivare tra le prime quattro formazioni d'Europa, prenotandosi per la finale contro il Milan.

    Tu chiedi e lui te la racconta
    A 42 anni Mourinho ha messo in bacheca quello che altri non riescono a mettere in una vita intera. Vincente. Forse è questo che lo fa diventare immediatamente antipatico. Perché José sta sulle scatole a molti. Lui lo sa, ma non se ne fa un problema: “Scusate se sembro arrogante, ma il fatto è che sono speciale”. Se ci parli di persona, Mourinho non fa una brutta impressione. Si crede il numero uno, è vero, ma risponde sempre alle domande, non si chiude dietro risposte di circostanza, non sceglie mai la via stracomoda del silenzio stampa. Tu chiedi e lui te la racconta: ovviamente deve spuntarla lui, perché lui è competente e gli altri lo sono meno, ma almeno risponde. Qualche mese fa venne in Italia per guardarsi Lazio-Inter, all'Olimpico. Un cronista lo fermò, convinto di essere respinto: José sorrise e si avvicinò.
    “Come mai qui, Mourinho?”.
    “Perché se non gioca la mia squadra, cerco sempre di andare a vedere una partita interessante. E questa mi sembrava la più bella del week-end”.
    “Vuole osservare l'Inter perché potrebbe essere un avversario in coppa?”.
    “No, guardi, oggi non sono venuto per questo motivo. Dell'Inter so tutto quello che c'è da sapere. Ho già molti filmati. Mi voglio guardare una partita e basta”.
    “Grazie Mourinho”
    “Grazie a voi”.
    Tranquillo, come se fosse al supermercato, mentre tutti pensavano a chissà quale oscuro disegno. Perché se un allenatore italiano va a Stamford Bridge a vedere il Chelsea non si fa neppure vedere, figurati se si lascia intervistare. E allora sarà pure antipatico, José, ma almeno è un professionista.
    E' un tipo difficile, e questo è impossibile negarlo. Da quando è a Londra ha litigato con mezza Inghilterra: dall'allenatore del Manchester United, Alex Ferguson, a quello dell'Arsenal, Arsene Wenger, passando per tecnico, giocatori e tifosi del Liverpool. Poi con la Regione Sicilia e con la città di Palermo, con Frankie Rijkaard, con tutto il Barcellona, con gli arbitri europei, con l'Uefa. E' un attaccabrighe che ha una sua logica: attira su di sé riflettori e polemiche, così permette ai suoi giocatori di stare tranquilli e sereni. Lo ammette anche: “Io devo far giocare bene i miei ragazzi e per arrivare a questo risultato posso arrivare a fare di tutto”.
    Fondamentalmente, però, creare casino gli piace da morire. La storia di Palermo, per esempio, se l'è proprio cercata. Doveva tornare a Oporto per una sfida di Champions League. Da avversario. Chiese una guardia del corpo: “Quella città è pericolosa, bisogna girare scortati come a Palermo”. C'entrava davvero nulla, lui lo disse lo stesso. Fu il caos: il governatore, l'assessore regionale allo Sport, il sindaco, il presidente Maurizio Zamparini, l'allenatore Francesco Guidolin, tutti addosso all'impertinente che in Sicilia non c'era stato neanche una volta. Si doveva sciacquare la bocca prima di parlare dell'isola. José prese carta e penna e scrisse a tutti che non voleva offendere nessuno, che sì, insomma, l'aveva detto tanto per dire. “Sorry”, in inglese, lui che sa quattro lingue, ma non l'italiano.
    Mourinho non è cattivo, e che lo disegnano così. Molto s'è disegnato da solo, per sottrarsi alla pena di sentirsi per sempre un raccomandato: suo padre è stato un portiere professionista e poi un allenatore di prima divisione portoghese. Guidava il Vitoria Setubal, la città della famiglia, quella dove José ha vissuto per mezza vita. Doveva costruirsi una personalità forte per evitare di essere considerato solo il figlio di qualcuno. Ha scelto l'arroganza come via di fuga dall'idea che qualsiasi cosa avrebbe ottenuto sarebbe arrivata per meriti di altri. Che poi non era soltanto il papà, ma tutta la famiglia. Perché José da piccolo, con un padre sempre in giro, viveva nella tenuta dello zio materno Mario Ascensao Ledo. Un tipo piuttosto noto nel Portogallo meridionale: imprenditore, proprietario di un'industria di sardine in scatola. Soprattutto persona conosciuta e fidata di Antonio de Oliveira Salazar e degli uomini del regime. José ha avuto un'infanzia nel lusso. Viziato sempre e soprattutto dopo la morte della sorella Teresa, vittima di una forma gravissima di diabete. E' stato educato a primeggiare dalla mamma Maria Julia, maestra elementare di quelle toste. Non doveva fallire, José. Così s'è trovato addosso la boria di chi era un predestinato.
    All'inizio il suo mondo non avrebbe dovuto neppure essere il calcio. Aveva provato a giocare, ma non aveva qualità. Difensore centrale senza grinta. Qualcuno dice che era molliccio perché invece di entrare duro con i tacchetti, pensava alla geometria dei movimenti di una squadra di pallone. Avrebbe potuto diventare un commercialista o un professore. José ha sempre avuto due passioni: il pallone e i numeri. Allora quando doveva scegliere che cosa fare dopo il liceo, il ballottaggio tra sport e scrivania fu vinto dall'Isef con un piccolo margine sulla facoltà di Economia. Si trasferì a Lisbona, con l'idea che la matematica, le equazioni, insomma tutto il resto della vita che aveva vissuto fino ad allora, gli sarebbero servite comunque. Perché non era il professore che voleva fare. Aveva già scelto: il suo futuro sarebbe stato in panchina. Come il padre, meglio del padre. Oggi lo confessa senza grossi problemi: “Io ho cominciato a voler fare l'allenatore a 20 anni. Ho avuto fortuna, perché sono partito in media con 15 anni di vantaggio sugli altri”.
    Il vantaggio che s'è costruito e quello che oggi gli permette di essere giovane in un mondo di vecchi e di avere davanti a sé altri tre decenni buoni per continuare a essere sempre il migliore. E' uno che sa sorpassare, José. Aspetta in scia, sfrutta la corrente, poi sbuca e ti frega. E' successo così quando ha fatto il salto da gregario a primattore.
    Ha cominciato dietro le quinte, quando Bobby Robson arrivò in Portogallo senza sapere una sola parola di portoghese. Lui che parlava perfettamente la lingua di sir Bobby si fece assumere come interprete. L'anno dopo fece fruttare la sua laurea in scienze motorie: assistente all'allenatore. Con Robson emigrò in Spagna, al Barcellona. Mourinho prese un duplex a Sitges, sulla costa catalana. Sul mare. Arrivò con una Volvo carica fino all'inverosimile. Con lui c'era già Matilde, la moglie. Anzi lei c'è sempre stata: sono sposati da 16 anni, stanno insieme da quando lui ne aveva 17 e lei poco più di 14. Tami sistemò tutto quello che c'era da sistemare in quella casa sulla spiaggia. Tutto compresi i fogli e un computer portatile: sono gli strumenti di lavoro del marito. Insieme con un videoregistratore e un software per il montaggio video. In quel bugigattolo sulla playa rimasero quattro anni. Abbastanza perché José avesse un altro capo, Louis Van Gaal: “Da lui ho imparato a difendere, da Robson ad attaccare”. A Barcellona ha anche imparato altre cose. La prima è che dei campioni non ci si può fidare: “Agli attaccanti come Ronaldo puoi chiedere al massimo un pressing di tre secondi, ma a me serve di più. Non ho tempo per i giocatori che sono considerati speciali e che si considerano speciali. Gente così non fa una squadra”. La seconda è che non si vince per caso, ci vuole l'ambiente, le capacità, l'impegno, gli uomini. Così lui ha coniato la sua formula per la vittoria e l'ha tradotta ovviamente in qualcosa di matematico. Un'equazione: “Motivazione + ambizione + spirito + squadra = successo”.

    Ogni dettaglio è utile, anche le interviste
    Gli insegnamenti di Barcellona sono tutti custoditi nel suo cervello e nella memoria del suo pc. José passa la notte a lavorare a casa, dividendosi tra Excel e PowerPoint, in un gioco di grafici, analisi e filosofia dello sport. La mattina dopo arriva nello spogliatoio e ti riempie la testa con le sue teorie: “Nessun giocatore è più importante della squadra”. Poi passa al videoregistratore e al televisore. Ecco a che cosa gli servono gli attrezzi che ha in casa: studia decine di videocassette degli avversari, i movimenti, le tattiche, persino le interviste per capire la loro mentalità. “Ogni dettaglio è utile. Sentire quello che dice il loro tecnico è fondamentale”. Taglia e monta, il mister regista: “Elaboro il tutto, realizzo un mio video di mezz'ora. Non di più, perché io posso sorbirmi cinque ore e passa di immagini, ma per i giocatori bastano trenta minuti ‘costruiti' per capire mosse e contromosse. Concetti semplici da applicare”. Finito con la tv, va alla lavagna tra iperboli, ascisse e ordinate: se X si sposta a destra, Y va a sinistra. Per lui i nomi non fanno differenza. Anche questo l'ha appreso al Barça, dove ha vinto tutto tranne la Champions. Quella è arrivata dopo, quando era già qualcuno, quando era lui il maestro che dirigeva l'orchestra, quando non c'era più un capo e non c'era più l'ombra. La Coppa se l'è portata a casa con la sua equazione e con il suo motto, con il computer e le videocassette. Con Costinha, Vitor Baia e Deco, senza avere a disposizione un Ronaldinho, un Shevchenko. Non li avrebbe neppure voluti. A lui non servivano e non servono nemmeno oggi che guida uno dei club più potenti del mondo, che potrebbe permettersi tutti, perché Abramovich gli comprerebbe chiunque. No, lui i più famosi che aveva a Londra li ha cacciati: Mutu, Veron e Crespo. S'è tenuto Carvalho, Robben, Cole, Lampard, Drogba. Tutte le X e le Y, ex anonimi o quasi che con lui si sono trasformati in campioni. Così oggi nello spogliatoio del Chelsea, José è amato e venerato, è considerato uno che sta sempre dalla parte dei giocatori. Lo difendono come se fosse un padre. Quando ha accusato l'arbitro Frisk di aver complottato con Rijkaard prima della partita Chelsea-Barcellona, i suoi calciatori hanno eretto un muro di solidarietà che l'ha protetto anche dalle ire del presidente-proprietario-padrone Abramovich. Ha cominciato Lampard, a cascata sono arrivati gli altri. Lui come Robin Williams ne “L'attimo fuggente”, loro tutti sulla scrivania per protesta: “Capitano mio Capitano”.
    Gli unici a non essersi impressionati sono stati gli arbitri europei che contro Mourinho volevano indire uno sciopero. Alla fine, dopo lo show anti Barcellona, dopo gli insulti agli avversari, dopo un'inchiesta Uefa, gli hanno dato due giornate di squalifica. La stessa che avrebbero voluto dargli in Inghilterra, dopo la finale di coppa di Lega a Cardiff contro il Liverpool, quando per festeggiare la vittoria ha cominciato a sfottere i tifosi dei Reds, sbeffeggiandoli in ogni modo. Prima che qualcuno gli facesse lo scalpo è arrivata la polizia per trascinarlo fuori dal campo, portarlo negli spogliatoi e cercare di mettergli un freno. Ogni volta che ne combina una, gli inglesi benpensanti e nazionalisti, che vorrebbero uno dei loro sulla panchina dei Blues, lo censurano, lo criticano, lo attaccano. Lui, nonostante la permalosità, non si offende: “Non siete abituati a uno come me, così aperto. Uno che si comporta come ritiene giusto, che non ha paura di esprimere che cosa prova e che cosa pensa, anche se sembra scorretto. Sarebbe molto più comodo e facile per me, dire che i conti si fanno alla fine, che tutto è possibile. Così non avrei problemi. Vi direi soltanto quello che siete stati abituati a sentire sempre fino a oggi. Invece io dico che vinceremo il campionato e voi pensate che sia una commedia, una presa in giro, una mancanza di rispetto e umiltà. Ma io non cambio: se mi sarò sbagliato, me lo rinfaccerete, ma preferisco essere così. Sincero”.
    In Inghilterra c'è chi lo detesta, ma c'è anche chi ne ha fatto un esempio. Piace la sua preparazione, ma pure il suo look. L'American Express per averlo come testimonial sborsa tre milioni di euro l'anno. Susannah Frankel dell'Independent ha convinto mezza Londra che vestirsi e atteggiarsi come mister Mourinho ti renda migliore: allora ci vuole il cappotto, l'orologio, le scarpe, l'abito, la camicia e la cravatta di José. E' sempre stato giudicato un bell'uomo e una volta il suo sex appeal gli ha quasi distrutto il giorno più bello della sua vita, quello della conquista della Champions. Dopo il trionfo, Mourinho andò immediatamente negli spogliatoi perché aveva paura che potesse accadergli qualcosa: aveva ricevuto minacce da un capo ultrà del Porto, che lo accusava di avergli rubato la donna. Eppure quando era a Barcellona qualcuno sosteneva che fosse omosessuale: troppo legato a Bobby Robson, troppo tempo insieme. Quando gli arrivò all'orecchio, José convocò una conferenza stampa: “Chi crede che io sia frocio, mi mandi sua sorella”. Poi, però, corse subito a Sitges, da Tami. Perché lei è l'unica che lo mette in riga: “Prendo ordini solo da mia moglie”. Oggi i Mourinho, con i due figli, vivono nella zona più chic di Londra. Sono a Belgravia, a Eaton Square. Anche lì, la stessa attrezzatura: un computer, un videoregistratore, un software per il montaggio. José quando torna a casa continua a lavorare, mentre Tami gli rimette in ordine la roba. Lei sistema tutto come la sera precedente e quella prima ancora, perché il marito è metodico e un po' paranoico. Sul comodino gli appoggia ogni sera lo stesso volume. E' quello che ha scritto lui e che continua a scrivere: il diario degli appunti di lavoro. “Da 20 anni annoto ogni giorno le tattiche che ho creato. E' il mio libro di riferimento”. Lo chiama “Bibbia”.