L'otto marzo d'aborto e da maschio pusillanime di Paolo Bianchi

Redazione

Era l'otto marzo, giorno che qualcuno osa chiamare Festa della Donna. Trovatemene una, di donna, che sia contenta di essere festeggiata così. Comunque, era l'otto marzo e io accompagnai un'amica ad abortire. Non ero io il padre. Avrei voluto, ma non lo ero. Se mai avessi potuto esserlo, la questione non si sarebbe nemmeno posta. Purtroppo il padre era un uomo molto più grande di lei, e lei aveva ventisette anni. Era successo un pasticcio. Lui se ne lavava le mani. Lei era terrorizzata. Aveva paura della propria famiglia, ricca, potente, piena di pregiudizi. Io ero il suo migliore amico e le volevo molto bene. Lei lo disse solo a me. Poi lo disse a sua madre, che ebbe una crisi. Poi alla sorella che le rispose: “Ti aiuto”. Non avevo mai frequentato una ragazza così bella e così sola. Mi fissava con occhi acquamarina, opachi d'angoscia. “Che cosa faccio?” mi chiedeva.

 

    Era l'otto marzo, giorno che qualcuno osa chiamare Festa della Donna. Trovatemene una, di donna, che sia contenta di essere festeggiata così. Comunque, era l'otto marzo e io accompagnai un'amica ad abortire.

    Non ero io il padre. Avrei voluto, ma non lo ero. Se mai avessi potuto esserlo, la questione non si sarebbe nemmeno posta. Purtroppo il padre era un uomo molto più grande di lei, e lei aveva ventisette anni. Era successo un pasticcio. Lui se ne lavava le mani. Lei era terrorizzata. Aveva paura della propria famiglia, ricca, potente, piena di pregiudizi. Io ero il suo migliore amico e le volevo molto bene. Lei lo disse solo a me. Poi lo disse a sua madre, che ebbe una crisi. Poi alla sorella che le rispose: “Ti aiuto”. Non avevo mai frequentato una ragazza così bella e così sola. Mi fissava con occhi acquamarina, opachi d'angoscia. “Che cosa faccio?” mi chiedeva.

    Insieme a lei, all'ospedale, c'eravamo solo sua sorella e io. Muti. Io guardavo una fila di ragazze, quasi tutte dell'hinterland, alcune giovanissime, che chiacchieravano fra loro, in apparenza senza pensieri. C'erano più silenzio e concentrazione nella sala d'aspetto del mio dentista. “Ma come – pensavo – non sono disperate?”

    Non so se lo fossero. La mia amica era apatica. Fece una strana battuta di spirito, che mi sembrò fuori luogo, e glielo dissi. Lei mi guardò in silenzio, gli occhi duri. Eravamo entrambi sotto stress.

    Per giorni avevamo parlato del bambino. Lei non lo chiamava “il feto” o “l'embrione”. Anzi, usava un termine che qui non riesco a ripetere, perché era un nomignolo affettuoso, che si riserva a un essere vivente a cui già si vuole molto bene. E che mi commuoveva.

    Avevo la testa piena di tesi politicamente corrette. Una in particolare: “La scelta, in questi casi, spetta alla donna”. Che è una tesi abbastanza comoda, per un maschio. E di questa tesi mi feci scudo. “Qualunque cosa tu decida – le dissi – ti starò vicino. Ma non ti dico che cosa fare”. Lei elaborò una serie di ipotesi, anche estreme. Una, che mi sembrò surreale, era che il bambino lo riconoscessi io. Per la famiglia di lei un padre come me avrebbe avuto un senso, quello vero no. E un padre ignoto sarebbe stato una vergogna. Che ingenui eravamo, avevamo davvero paura di queste cose. Ci pensavo giorno e notte. Mi prese perfino una strana euforia. Mi pareva di perdere la ragione. Avrebbe mai potuto reggere una menzogna così colossale? Ma c'era di mezzo quel bambino, e il modo che lei aveva di chiamarlo. Entrambi lo sentivamo come una cosa viva. Per un paio di settimane non pensammo ad altro.

    Poi le ripetei che le sarei stato vicino, ma che il padre doveva rimanere anonimo.

    E lei decise di perdere il bambino.

    Hanno ragione le femministe (e non solo loro), quando dicono che il maschio è pusillanime. Io lo fui. Le restai vicino, ma non abbastanza. E vigliacco mi sentivo in quell'otto marzo ancora caliginoso, sul limitare della primavera, a metà degli anni Novanta, mentre lasciavo l'ospedale. Siamo rimasti amici, ma c'era quell'ombra, fra noi. Poi ci siamo persi di vista. Non so che cosa darei per sapere come sta, oggi, quella ragazza di allora. Per sapere se ha avuto altri figli. In cuor mio glielo auguro.

     
    Paolo Bianchi
     
    Paolo Bianchi, giornalista, ha scritto, tra gli altri, "La cura dei Sogni" (Salani, 2006) e "La repubblica delle marchette" (Stampa alternativa, 2004)