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Basta con la generazione degli happy hour

Marianna Rizzini

Il nostro giovane collega Luigi De Biase, ventotto anni e nessuna propensione per il mojito, minaccia di scriverci una pubblica lettera di dissociazione antiaperitivista poiché è stufo “di veder imperversare la generazione degli happy hour”. Ohibò, siamo noi, abbiamo pensato lì per lì, sgomenti sia per la minaccia di una pubblica lettera di dissociazione sia per il fatto di essere considerati “altra generazione” dai ventottenni. Poi abbiamo capito.

Il nostro giovane collega Luigi De Biase, ventotto anni e nessuna propensione per il mojito, minaccia di scriverci una pubblica lettera di dissociazione antiaperitivista poiché è stufo “di veder imperversare la generazione degli happy hour”. Ohibò, siamo noi, abbiamo pensato lì per lì, sgomenti sia per la minaccia di una pubblica lettera di dissociazione sia per il fatto di essere considerati “altra generazione” dai ventottenni. Poi abbiamo capito. C’era dietro una critica politologica bipartisan all’ossessione della generazione happy hour per il precariato (come corollario dell’amore-odio di Veltroni e Berlusconi per il precariato stesso, in un senso o nell’altro, e della tensione interiore di Emma Marcegaglia, neoletta capo confindustriale, costretta a mantenere un’allure deprecarizzata nonostante la sua aria bronzea da serena aperitivista del Nord). Certo non possiamo negarlo: da precari si contrae il vizio dell’aperitivo e, d’altronde, troppi aperitivi favoriscono la permanenza nel precariato. Precarie sono le persone che ti servono l’aperitivo e precario è l’aperitivo stesso – e allora, cari gestori del locale per happy hour domenicali “Modo” a vicolo del Fico, a Roma, come pensate di stabilizzare a tempo indeterminato i bicchieri, in quella stanzetta che un tempo si chiamava semplicemente “Locale”, oggi che la gente si ubriaca già alle sette di pomeriggio, incurante della tristezza intrinseca nell’aperitivo domenicale, con la sua chiusura anticipata e l’ansia strisciante per l’incombere del lunedì? Non potendo negare nulla né tantomeno risolvere il problema del precariato né tantomeno candidare un precario, ci toccherà offrire a De Biase, come riparazione preventiva, un Rosabiancosarti – non conosciamo tale drink, ma prendiamo per buono il suggerimento di un amico siciliano che l’ha visto bere a “uomini tutti d’un pezzo”. O, come suggerisce il cronista illustre Maurizio Crippa, brianzolo, un Vermouth Martini rosso – lui lo definisce “non alcolico” e dichiara di sopportarne vari bicchieri senza barcollare, ma noi, che non siamo brianzoli, non ci crediamo. Un gentiluomo d’altri tempi ci convince parlandoci di un altrettanto sconosciuto (a noi aperitivisti grossier) “Carpano secco con due gocce di angostura”. Ci sembra elegantissimo e lo adottiamo in contumacia, giacché non l’abbiamo mai visto in un menù. Ma sospettiamo lo servano nel bar al piano interrato dell’aeroporto di Malpensa (confidiamo nell’ex ministro Roberto Maroni: già che difende l’aeroporto, che vegli anche sull’angostura).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.