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L'ultimo giorno dell'anno, un rito esistenziale in cui lasciar andare e accogliere il futuro che ci attende

Michele Silenzi

Anche se capodanno è una data che appare come pura convenzione, si sente la necessità di ricominciare e di mendicare il domani. Quegli istanti prima della mezzanotte non sono pure metafore ma momenti reali che ci dicono qualcosa della stoffa di cui è fatto il nostro mondo

È fatale scrivere del giorno in cui l’anno finisce e quello nuovo ancora non inizia. Sebbene sia ovvio che ogni anno lavorativo, scolastico, accademico, insomma tutto ciò che organizza le nostre vite, non comincia l’uno gennaio ma l’uno settembre, questa data terminale, che appare come pura convenzione rispetto al continuum di qualsiasi esistenza, indica anche il necessario “nuovo inizio” senza cui sembra non si possa vivere. La necessità di ricominciare non è, allora, uno slogan da film di Natale, ma una necessità esistenziale. Al di là della ciclicità delle stagioni e della prestabilita organizzazione del tempo in dodici mesi, il passaggio dell’anno è il momento della malinconia creativa, il momento di lasciar morire ciò che è stato per poter incamminarsi nel nuovo. 

 
Una grande scrittrice come Pamela L. Travers, che ha avuto la ventura di vergare le avventure di Mary Poppins, era anche una splendida autrice di prose brevi e misteriche, spesso inquietanti come solo le favole possono essere. In una di queste prose, parlando appunto della fine dell’anno, Travers scrive così: “A Capodanno, quando risuonano i dodici colpi di campana e noi recitiamo i nostri propositi – ‘Sarò buono’; ‘Volterò pagina’; ‘Ricomincerò daccapo’ – anche senza saperlo noi impersoniamo il mito dell’eterno ritorno o forse, addirittura, ne veniamo impersonati; la ciclica distruzione e ricostruzione del cosmo, comune a tutte le tradizioni religiose, quando il mondo, il tempo e l’uomo stesso, dopo un’interruzione rituale, vengono ritualmente rinnovati”.

 
Un meccanismo psicologico? Una ritualità ancestrale? O, più semplicemente, la fisiologica necessità di lasciare andare le cose, per accogliere ciò che potrebbe arrivare. E’ forse niente altro, questo giorno, che il modo in cui simbolizziamo l’attesa, in cui vediamo manifestarsi davanti a noi, con uno spesso dozzinale conto alla rovescia, la potenzialità assoluta che può essere solamente in ciò che ancora non è manifesto. Ancora Travers: “‘Quand’e che finisce l’anno vecchio?’, chiede un bimbo. ‘Al primo rintocco di mezzanotte’, gli si risponde. ‘E il nuovo anno, quand’e che comincia?’. ‘All’ultimo rintocco di mezzanotte’. ‘E in mezzo, cos’e che succede tra l’uno e l’altro?’”. Tra un rintocco e l’altro vi è il momento della massima incertezza e insieme quello più gravido di futuro. Il momento più buio e muto perché la luce del nuovo anno, ossia del futuro, si prepara a diffondersi con la sua forza poderosa e seducente, abbagliante e spietata che assegnerà a ciascuno la propria dose di sconfitta e di vittoria, guardandosi bene dal farlo in parti uguali. Ma lì, in quello spazio sospeso tra il non più e il non ancora, in quel momento tremendo si è davvero tutti uguali, mendicanti di futuro, in attesa. Lo stupore, l’attimo idiota e proprio per questo perfetto in cui ogni cosa è da scrivere, in cui tutto è possibile.

  
Allora si dovrebbe pensare che questo momento celebrativo, questo passaggio che diamo per acquisito come puramente simbolico, quando non come la più banale delle tradizioni, abbia invece una sua realtà metafisica, che sta a indicare, a fare segno verso qualcosa che ha interamente a che fare con la nostra vita e che pure non possediamo interamente, perché altrimenti non staremmo in attesa. Si dovrebbe pensare che questi passaggi non siano pure metafore ma momenti reali che ci dicono qualcosa della stoffa di cui è fatto il nostro mondo, del suo tessuto più sottile, invisibile, ma proprio per questo più costitutivo delle nostre esistenze. I passaggi di anno o, più in generale, i grandi momenti di festa collettiva e condivisa, si possono pensare come delle fratture mistiche sulla trama della quotidiana ordinarietà attraverso cui tentiamo di fare entrare quella luce che poi si riversa nelle nostre vite riempiendole di un significato di cui non siamo in grado di darci ragione, ma che sappiamo di dover vivere. 

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