
Una fogliata di libri
La stagione che non c'era
La recensione del libro di Elvira Mujčić edito da Guanda, 256 pp., 18 euro
C’è una domanda che ossessiona Nene, giovane aspirante artista: cosa resterà del suo paese, la Yugoslavia? E’ il 1990, Tito è morto da dieci anni, l’odio nazionalista sta montando ovunque. Nene lascia Sarajevo e prende la corriera per tornare a S., il suo villaggio nella Bosnia orientale. Era partito per sfuggire alla provincia, è tornato per mancanza di alternative. A S. ritrova Merima, compagna di scuola ora attivista politica, e la figlia di lei, Eliza, che progetta un viaggio in Montenegro sulle tracce del padre mai conosciuto. La società sembra immutata, in città come in campagna: le trattorie impregnate di fumo e lacca per capelli, gli anziani che biasimano il rock e l’indolenza dei giovani perdigiorno, e che temono il giudizio del villaggio. Eppure c’è un’energia nuova, aggressiva. I politici tirano fuori parole come identità, soprattutto con i seljaci, la popolazione rurale. Proliferano discorsi e libri nazionalisti (spesso revisionisti) che alimentano la retorica e l’odio etnico: come i croati hanno massacrato i serbi, i serbi i musulmani, i turchi i cristiani – riaffiora con urgenza un passato remoto. I socialisti assistono al loro mondo che si sgretola, brandendo inutilmente l’effigie di Tito, “macerie di una vita gloriosa”. Merima si lancia in un tentativo disperato di salvataggio, partecipando alla campagna elettorale del partito riformista di Ante Markovićc, l’ultimo primo ministro della Repubblica socialista federale di Yugoslavia, per poi vedere le proprie speranze naufragare alle prime elezioni libere. Il presente invita minacciosamente a schierarsi e definire la propria identità nazionale, etnica, religiosa. Per Nene è assurdo l’obbligo di prendere parte, lo considera “il punto di non ritorno”, e piuttosto si impegna a costruire la sua identità d’artista. Raccoglie i frammenti di questo mondo che sembra già scomparso per ricomporli in un’opera d’arte. Una tessera di partito, un poster elettorale, una registrazione di una manifestazione, una cartolina: mappa le tracce che restano, e che sente già reperti archeologici e reliquie. Nel romanzo i destini dei personaggi si intrecciano con quello di un paese al crepuscolo, e le loro voci con quelle della storia – ci sono stralci di trasmissioni radio, televisive, testi di canzoni. Alla voce di Eliza, una bambina, è affidata l’insensatezza e l’incomprensibilità di quello che da lì a poco sarebbe successo: le compagne di scuola con il cognome come il suo (bosgnacco) restano, quelle col cognome come la sua amica Vesna (serbo), partono. Meho, suo nonno, sa che è il preludio al massacro. Mujčić, che è cresciuta a Srebrenica (e che dal 1992 vive in Italia), dipinge un affresco del mondo che si prepara al disastro, della parabola velocissima in cui il sospetto diventa violenza e l’odio esplode nella guerra.
Elvira Mujčić
La stagione che non c’era
Guanda, 256 pp. ,18 euro