
Foto Getty
una fogliata di libri
Il dannunzianesimo quintessenziato di Giovanni Comisso
Come il suo Comandante, lo scrittore di Treviso celebra la linfa che scorre nel mondo, la gioia cruda di esistere, il modo in cui la morte più macabra e il godimento vitale si nutrono a vicenda. Il volume “Italia ingrata. Scritti da Fiume” ne raccoglie alcuni articoli e prose inedite
Truccata alla dogana del Novecento, l’eredità ingombrante di D’Annunzio è finita un po’ ovunque: il manierista-uomo d’azione rinasce in Malaparte; Montale mette il segno meno alla sua poesia; Gozzano la parodia. Ma è in Saba, Penna e Comisso che si può cogliere un dannunzianesimo quintessenziato, portato al grado zero: ubiquo e irriconoscibile a un tempo. Specialmente in Comisso. E’ vero, non bisogna confondere la sua esperienza fiumana con l’influenza letteraria. E’ vero, dietro di lui c’è Rimbaud: ma tradotti in italiano, i poemetti in prosa del francese sanno di dannunziano “Notturno”. Come il suo Comandante, lo scrittore di Treviso celebra la linfa che scorre nel mondo, la gioia cruda di esistere, il modo in cui la morte più macabra e il godimento vitale si nutrono a vicenda. Solo che per la generazione comissiana non ci sono più grandi progetti, credenze certe, imprese inimitabili. Se una volta si pensava di divenire “dominatori”, scrive Comisso nel primo Dopoguerra, “Noi divenimmo invece giorno per giorno capaci soltanto di essere uomini comuni come tutti gli altri”, e senza più ambizioni “restiamo sicuri di fronte alla luce antica del sole mattutino”.
Trovo la citazione in “Italia ingrata. Scritti da Fiume”, un volume curato da Alessandro Gnocchi per La nave di Teseo che raccoglie articoli usciti sulla rivista Yoga, bilanci tardi della vicenda fiumana, abbozzi teatrali sui legionari, brevi prose inedite o pubblicate tra gli anni ’30 e i ’50. Spicca qui la cellula che genererà i libri maturi di Giovanni Comisso: quel capoverso dove la prosa lirica si mischia al diario di viaggio, e dove ogni frase somiglia a una serie di piccole pennellate giustapposte, precariamente legate dalla sintassi, in cui tutti gli oggetti stanno sullo stesso piano. Ne risulta un “ritratto dell’artista da giovane”, cioè prima del “Porto dell’amore”. E’ il Comisso educato alla vita antiborghese da Guido Keller, che si muove tra gli ultimi festoni futuristi, la metafisica di de Pisis e de Chirico, e la poesia esoterica di Onofri. Nei pezzi ideologici, alle democrazie nordiche e “razionali” oppone una “razza italica” istintiva, anarchica, incline ad affidarsi a poetici capitani di ventura. Così ancora nel ’41, su Primato, Comisso considera il Vate, definendo la costituzione del Carnaro “poesia sociologica”: una “poesia” degna di quei giovani rivoltosi hippie ante litteram, che a differenza del loro padre nobile non credevano ai monumenti ma agli happening. In Giovanni, su Fiume maiuscola prevalgono infatti i fiumi assolati in cui dimenticarsi tra compagni simili ad animali. I suoi marinai e i suoi caffè richiamano Penna o il comissiano Parise, non a caso autori altrettanto sensuali e affascinati dalla pittura (più a sud, Comisso trova un analogo in Carrieri).
Tra i tanti racconti scorciati, torna qui con varianti un pezzo in questo senso molto tipico. Dopo le carezze, il narratore rientra dal bosco con l’amato: “Forse cominciavamo a pentirci dei nostri peccati (…) Una rapida farfalla notturna girò per un attimo attorno al tuo capo, nel vederti restare pensoso ti posi tra le mani i fiori celesti raccolti. / Come giungemmo sulla strada ritrovammo le signorine vestite da festa che ci attendevano da un pezzo”. Comisso vede le cose da vicino e insieme da lontanissimo: che è il segreto della leggenda. Malgrado abbia combattuto, diceva Ceronetti, con gli eserciti ha una relazione “puramente musicale, come quella di Flaubert con la guerra tra Matho e i Cartaginesi”. Forse proprio per questo li ha rappresentati in modo così eccezionale; come, per la “razza” americana, ha fatto il suo coetaneo Hemingway. “Noi abbiamo commesso ormai tutti i peggiori peccati con una candidezza infantile” constata lo scrittore in un testo intitolato alla figura, che gli è comprensibilmente cara, del figliuol prodigo.

Una Fogliata di libri