Grafica di Enrico Cicchetti 

UNA FOGLIATA DI LIBRI

Il sacro è sempre vivo, anche se a dirlo è una ciarlatana illuminata

Edoardo Rialti

È in libreria “La verità su tutto” (Mondadori), ultimo romanzo di Vanni Santoni

La santa vita di un grande peccatore. Era il titolo dell’affresco che Dostoevskij desiderava realizzare, il suo romanzo definitivo, un percorso che comprendesse delitti, conversioni, ricadute nella violenza e nell’estasi di immani imperi economici, rivelazioni che tutto abbracciano e salvano. Di tale cattedrale ci restano solo colonne e navate incomplete, mere frazioni abbozzate nei romanzi dei suoi ultimi anni. Vanni Santoni aveva già posto la sua narrativa in dialogo con quella medesima ambizione ne “I Fratelli Michelangelo” – legato per più di un asse, così come gli altri romanzi e personaggi, al nuovo tassello del suo personale mosaico, “La verità su tutto” (Mondadori), la santa vita di una mistica che forse è una ciarlatana e proprio per questo, in fondo, potrebbe essere davvero un’illuminata.

 

Dinanzi al languore dei vecchi sistemi mitologici, i sociologi degli anni 60 sancivano la scomparsa del sacro, e il successivo mezzo secolo non ha fatto che smentirli, tra nuove incarnazioni del messianesimo politico e gnosi psichedeliche. Proprio una sociologa è la protagonista di questo percorso di spoliazione che, come in Agostino o Tolstoj, parte dal pungolo del proprio male meschino per approdare a rave, santuari improvvisati nel gelo dell’Appennino, comunità con milioni di adepti che gettano anche l’ombra di ambigui domini finanziari, repressioni di un potere capitalistico informe nella sua pervasività, incendi d’ambizione politica che vorrebbero trasformare le pietre nei pani dell’azione su vasta scala, crocifissioni corteggiate, la seduzione del comando, crisi su crisi. In nome dell’amore si infligge altro dolore, parenti e amanti non capiscono, come per Cristo o Francesco, una vocazione-reale o creduta tale- è sempre terribile, la cupa eternità animale può farsi santa, ma quel poco taglia come spada, notava Mario Luzi.

   

Libri si aprono su altri libri, come porte su porte; al pari di Dante i maestri letterari come Bernanos fanno spazio ai cantori della visione pura, i racconti dei pellegrini russi o la Bhagavad Giītaā, mentre una personalissima Virgilio-Tulpa, il fantasma di Simone Weil mette in discussione conquiste e dubbi con citazioni e frecciate scoccate da dietro le grosse lenti a culo di bottiglia. Santoni lascia il lettore libero di interpretare come preferisce un simile viaggio, dove le case di senso provvisorio e le loro riposanti geometrie tendono inesorabilmente a farsi chiese, con verità universali e scomuniche, sebbene risulti piuttosto chiaro come per l’autore persino l’ironia costante della protagonista, i suoi toscani vaffanculo, siano un salutare crogiuolo con cui filtrare tutte le idolatrie, i tradimenti supremi d’ogni ascesi, per cui, secondo Eliot, si compiono le azioni più giuste per motivi sbagliati.

 

Nessuno qui – neppure il balenare d’un demonio che sua volta si conferma più goethiano che manniano, divertito visir a servizio di un bene più grande – difende davvero, come Nietzsche, il valore ulteriore del samsara abbracciato rispetto a ogni nirvana, la dissonanza straziante contro ogni mentalità armonica. Affiora però costante la nostalgia per qualcosa che pare irrimediabilmente perduto, per cui niente sembra conservare quanto provato all’alba di una festa tekno o tra gli scaffali di una facoltà illuminati dal sole pomeridiano; che forse, più ignoranti e goffi, si era comunque più vicini a quel qualcosa che cerchiamo da sempre di provare, vedere e sentire. Non facciamo che oscillare tra Eden e Gerusalemme celesti.