una fogliata di libri

Lettere a Camondo

Giulio Silvano

La recensione del libro di Edmund de Waal, Bollati Boringhieri, 192 pp., 16 euro 

Non è un caso che Edmund de Waal – celebrato ceramista e bestsellerista – in questo nuovo libro tradotto da Carlo Prosperi, citi a un certo punto W. G. Sebald. Anche qui, come nei testi dello scrittore tedesco morto dieci anni fa, si trovano fotografie, ritratti, mappe. Le immagini scelte dall’autore sono testimonianze e documenti della storia di Moïse de Camondo, a cui sono indirizzate le missive che compongono il testo e che iniziano con “Monsieur”, “Caro amico”, o “Mon cher monsieur”. Solo che Moïse, banchiere, collezionista, viveur, nato nell’Impero Ottomano da una famiglia di ebrei sefarditi, è morto nel 1935. Cosa c’è di più romantico di scrivere lettere a qualcuno che non le leggerà mai? 

  
Dopo il successo di Un’eredità di avorio e ambra, dove attraverso una collezione di 264 statuine giapponesi si ripercorreva la storia degli antenati dell’autore, gli Ephrussi (amici di Proust), in Lettere a Camondo partecipiamo intimamente a un’inchiesta esplorativa, un viaggio indietro nel lungo Novecento parigino per mettere sotto la lente d’ingrandimento la vita dei Camondo. La storia parte dal palazzo su Parc Monceau, che Moïse fece restaurare nel 1911, con un ingresso ispirato al Petit Trianon di Versailles: quindici finestre per piano, sul fronte parco, “dove la facciata si spezza in due ali che racchiudono una maestosa rotonda sostenuta da colonne corinzie”. In queste stanze l’autore osserva le opere, sfoglia i registri, la corrispondenza, gli album di foto. “È un mondo intero. È una famiglia, una banca, una dinastia”.

 

Quando scompare in battaglia, nella prima guerra mondiale, l’adorato figlio, Moïse decide di ritirarsi dalle attività di banchiere, dedicando la vita a organizzare cene gourmet con gli amici. Alla sua morte, il palazzo diventa un museo, e tutto il suo contenuto, la grandiosa collezione di opere del Settecento, quadri, porcellane, tappeti, mobili arazzi, vengono lasciati alla Francia. La figlia, la vedova, la nipote e il genero speravano forse che bastasse questa generosità, una decina d’anni dopo – con Pétain, le SS e le stelle gialle da cucire sul bavero – per evitare di esser caricati su un treno; donare un patrimonio allo stato, essere integrati, essere francesi. Perché scappare come fanno tanti altri? Ma niente è sufficiente per difendersi dalla furia dell’antisemitismo, dalla lucida e meccanica atrocità dei nazisti e dei collaborazionisti. Finiranno ad Auschwitz. Tra i memento più lancinanti trovati da de Waal ci sono i documenti di deportazione dello schedario del campo di Drancy. 

  

Lettere a Camondo

Edmund de Waal, 

Bollati Boringhieri, 192 pp., 16 euro 

Di più su questi argomenti: