Grafica di Enrico Cicchetti

una fogliata di libri

Grandi romanzi destinati a un oblio quasi fatale. C'è un perché

Marco Archetti

Romanzi  dimenticati: “L’airone” di Giorgio Bassani e “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta 

In un’intervista di qualche anno fa a margine del Salone del Libro di Torino, Filippo La Porta, conversando con Saverio Simonelli (intervista reperibile su YouTube e intitolata enfaticamente “I libri necessari di Filippo La Porta”) citava due grandi romanzi del secolo scorso. Romanzi italiani, scritti in lingua italiana e non in tardo sottotitolese da serie tv, ormai ai margini delle abitudini di lettura, delle politiche di ristampa e forse, anche, del canone di chi, i libri, li scrive. Il primo è “L’airone” di Giorgio Bassani, la cui reperibilità (Universale Economica Feltrinelli) è al momento meno difficoltosa di quella del secondo, “Il giorno del giudizio” (Adelphi), di quel Salvatore Satta che, con “La veranda” (scritto tra il 1928 e il 1930, approdato a un premio ma scartato, poi dimenticato per decenni, infine pubblicato nel 1981) consegnò al Novecento un testo indimenticabile, per lo meno se amate il mirabile genere sanatori, rottami spirituali, vita, amore & morte – apice lirico, il capitolo in cui si racconta la sfilata delle tubercolotiche davanti ai tubercolotici conturbati. 

   
La ragione per cui questi due romanzi si sono incagliati nella melma di un oblio che rischia di esser loro fatale, è che, secondo il critico, la cultura attuale, ironica e fiduciosa nel progresso, garrula, postmoderna e ottimista perfino malgré soi, non è in grado di “assorbirli”. Condivisibilissima opinione, la quale si fa certezza leggendo il romanzo di Bassani. Uscito nel 1968 e, all’epoca, oggetto di non trascurabili attenzioni, vinse il premio Campiello edizione 1969. Poi cos’è successo? A giudicare dai commenti su Ibs, nulla di grave: sono solo sette, per carità, però tutti recenti, tutti entusiastici. Ma certo, al di là delle stelline dei lettori, o meglio, degli acquirenti, o meglio, degli acquirenti di Ibs, il punto di La Porta è un altro. Ed è inaggirabile: “L’airone” è un romanzo non sintonico con quest’epoca perché incurante della propria radialità, un romanzo che non concede scappatoie e che racconta una stanchezza definitiva di vivere, un’irrevocabile assenza di riferimenti, una nausea sorda e strisciante, un rifiuto della vita di cui il protagonista, Edgardo Limentani, affonda progressivamente durante una giornata di caccia che comincia all’alba e si trascina più di quel che dovrebbe, tra caffè, visite alla toilette di un bar gestito da un ex fascista, calo del desiderio (venatorio), spleen palustre e percezione di folgoranti insensatezze. Fino al commovente tu per tu con un airone ferito, che Bassani, con la capacità emblematica che ha la grande letteratura, racconta così: “Si illudeva a un punto tale, era chiaro, povero stupido, che se a pensare di sparargli non gli fosse sembrato, a lui, di star sparando in un certo senso a se stesso, gli avrebbe tirato immediatamente”. Anche della selvaggina Limentani si libererà, allusiva liquidazione di tutte le zavorre. “Con una lucidità repentina si sorprese a chiedersi: ma lui, lui stesso, vestito da caccia, col berretto di pelo in testa, ma lui, chi era, veramente?”.

   
Descrizione di un viaggio verso la morte, labirinto della coscienza che pregiudica ogni possibilità di redenzione, tragico senza tragedia, “L’airone” è un romanzo severo, plumbeo e minuzioso, ambientato lungo un Delta del Po piatto e saturo di presagio, complice di tutto il nulla che si fa strada in Limentani. Un nulla che cede di colpo. Perché, di colpo, ecco la felicità improvvisa: immaginarsi morto, sepolto – immaginarsi risolto.
 

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