una fogliata di libri

Quanto si sarebbe divertito oggi il povero Ferrante Pallavicino

Rinaldo Censi

Insolente, libertino e iconoclasta, la sua satira tagliente gli avrebbe fruttato cancelletti e tag e molti follower. Ma il Seicento barocco non aveva l’internet, e la fine di Ferrante fu per questo ben più tragica della commedia social

Nessuno parla più di Ferrante Pallavicino. Eppure, in quest’epoca suscettibile, ossessionata dall’indignazione, il nostro canonico – forzato al chiostro malgré lui – si sarebbe probabilmente molto divertito. Insolente, libertino e iconoclasta, la sua satira tagliente gli avrebbe fruttato cancelletti e tag e molti follower. Ma il Seicento barocco non aveva l’internet, e la fine di Ferrante fu per questo ben più tragica della commedia social. Apostata, calunniatore, maestro di iniquità, reo di lesa maestà divina e umana, venne condannato a morte ad Avignone, città pontificia, e lì decapitato il 5 marzo 1644, a ventinove anni.

 

Nessuno parla più di Ferrante Pallavicino. Ne resta traccia in qualche pagina della Certosa di Parma, dove Stendhal descrive le gesta di Ferrante Palla, repubblicano condannato a morte e in contumacia, autore di duecento versi impareggiabili, degni di Dante (non era di questo avviso avviso Croce, che lo considerava mediocre).

 

Ma che esistenza avventurosa la sua. A tredici anni muore il padre, il marchese Giangirolamo, e la sua vita subisce uno scossone. Come figlio cadetto, deve lasciare la sua fetta di eredità al primogenito e intraprendere una carriera in convento, a Milano, poi a Padova. Non tutti i mali vengono per nuocere. La congregazione dei canonici lateranensi possiede ad esempio ricchissime biblioteche. Quella di Padova poteva contare su volumi antichi, spesso manoscritti, dispersi purtroppo nel 1783. Nella biblioteca erano di certo accolte opere di filosofi, storici, poeti dell'antichità pagana, in numero "largamente superiore a quelle di argomento devoto", ricorda Raffaello Urbinati, biografo di Ferrante Pallavicino. E’ proprio lì che il nostro inizia la stesura del suo primo libro, “Il sole ne’ pianeti, cioè le grandezze della Serenissima Repubblica di Venetia” (1635). Si stabilisce in laguna e entra in contatto con una delle più prestigiose accademie letterarie della penisola, forse la più folle e vaniloquente: l’Accademia degli Incogniti (ogni secolo ha l’avanguardia che si merita. Noi abbiamo avuto i “Cannibali”). 

 
A scorrere il numero di opere che ci ha lasciato, viene da pensare alla sua rapidità di scrittura. E’ un vulcano. Brucia ogni tappa. Sette anni prima di essere decapitato si gode la fama a Venezia. Stuzzica ripetutamente i gesuiti. Mai contrito, viene condannato all’Indice per “La pudicitia schernita” (1639). Sente che l’aria si è fatta pesante e fugge in Germania. Rientrato, il nunzio Vitelli e il collerico cardinal Barberini lo attaccano per il “Corriero Svaligiato”. Viene arrestato. Nel libro Ferrante narra di tresche papali e nepotismo. Ispirato dalla teoria pitagorica della trasmigrazione delle anime (le biblioteche dei monasteri servono a qualcosa) descrive i princípi trapassati come pulci che succhiano “l’altrui sangue”. I cardinali vengono invece descritti come cimici.

 

In cella lavora alla “Retorica della puttane”, pubblicato anonimo nel 1642. Una vecchia ruffiana istruisce una giovane, avviandola alla vita della cortigiana. Uscisse oggi, qualche “femminista suscettibile” farebbe sfoggio di cancelletti per attaccare questo invito al “meretricio”, non comprendendo che il vero scandalo – lo afferma Laura Coci, che ha curato nel 1992 in maniera encomiabile l’edizione del libro edita da Guanda/Fondazione Pietro Bembo –, stava nell’alterazione “insensibile e coerente della retorica dei gesuiti, che viene trasformata in retorica di prostitute, di puttane, anzi”. Per questo Ferrante ci ha rimesso la testa.

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