“È importante viaggiare e scoprire ma poi, alle nostre spalle, ecco arrivare la voce delle nostre radici” (grafica di Enrico Cicchetti) 

Tutta l'umana grandezza di Ulisse, divorato dalla nostalgia

Daniele Mencarelli

A guardare la storia della letteratura sale agli occhi un’evidenza abbastanza indiscutibile. Le opere che consideriamo vette assolute, paradigmi da guardare con umiltà, trattano tutte, in modalità spesso molto diverse, il tema del viaggio. Il viaggio, nella sua accezione metaforica, è in un certo senso l’anima stessa di ogni racconto che sia tale, anche quando apparentemente privo di movimenti reali. E’ la volontà dell’uomo ad abbandonare la terra delle proprie sicurezze per buttarsi nell’ignoto da scoprire, è andare incontro a ciò che non sappiamo nemmeno esistere. Grazie a queste scoperte, spesso ottenute dopo la risoluzione di conflitti più o meno efferati, l’uomo accresce la sua consapevolezza, le sue conoscenze, e migliora se stesso. 

 


Detta in questo modo, la dinamica del viaggio è sinonimo stesso di letteratura, poco importa se avvenga dentro un condominio o attraverso un deserto intero. Per secoli, però, il viaggio interiore, psicologico, dell’eroe è coinciso con l’andare per terre e mari, all’avventura, in costante avanscoperta, solo per il desiderio di guardare oltre, per poi possedere, spesso a fil di spada. Se il viaggio è sinonimo perfetto della letteratura, c’è un ulteriore elemento interessante che balza agli occhi. Per certi aspetti una stranezza. Ogni viaggio prevede due grandi atti naturali. L’andata. E il ritorno. Dai grandi poemi omerici in poi, molte opere si sono concentrate su tutto ciò che accade nella seconda parte dell’avventura. Quella in apparenza meno ardita e avventurosa.  La letteratura è viaggio. E spesso il viaggio che si racconta è quello del ritorno. Il ritorno a casa, alla propria terra, i propri affetti. Ulisse per tutti.  L’uomo sente dentro di sé un’urgenza, spesso monta con il montare degli anni. 

 


È importante viaggiare, scoprire, masticare terra, ma poi, alle nostre spalle ecco arrivare la voce delle nostre radici, di ciò che ci ha originato, e di ciò che ancora ci aspetta. Allora si ritorna, si lotta per vedere il profilo della nostra casa. 


“Il nodo magico”, di Cristina dell’Acqua (Mondadori) getta una luce proprio su tutto quello che il viaggiatore più viaggiatore di tutti, Ulisse, fece pur di tornare a Itaca. E’ un uomo leggendario, un eroe vittorioso, eppure nel suo cuore tutto perde progressivamente di senso e grandezza. Lui vuoi solo rivedere la sua casa, è un uomo come ogni altro, disperso in mezzo al mare, senza sapere nulla oltre alla nostalgia che lo divora. E’ qui che la sua vera grandezza esplode, non è grandezza militare, ma umana, perché pur di riconquistare la sua casa sa chiedere aiuto, abbassarsi al livello della terra. E di aiuti ne troverà tanti, offerti da figure femminili divenute architravi del nostro immaginario. Circe. Calipso. Penelope. Anticlea. Atena. Saranno loro a dargli l’aiuto e la forza per arrivare al suo obiettivo, attraverso il legame che stringeranno con lui.  Legami come nodi, come quello con cui Ulisse lega lo scrigno pieno di tesori che gli ha donato Arete, madre di Nausicaa e regina dei Feaci. Senza questa trama di relazioni, di nodi, il grande eroe omerico non ce la farebbe a compiere il suo viaggio di ritorno.


Da soli non ci salviamo. Poco importa se ci chiamiamo Ulisse o Mario. Né possono salvarci le persone che ci amano quando non sono accanto a noi. Quando siamo soli nel mondo, quando tutto quello che ci circonda è ignoto, abbiamo una sola possibilità. Farlo diventare familiare. Attraverso l’arte dell’incontro, premessa di ogni grande amicizia. Rendere noto e accogliente l’ignoto. Saper chiedere aiuto. 


Forse di tutte le arti umane la più suprema.

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