Una fogliata di libri

L'arte di non essere governati

Giuseppe Perconte Licatese

La recensione del libro di James C. Scott (Einaudi, 480 pp., 34 euro)

"Zomia” è il nome con cui alcuni studiosi indicano una regione-altopiano che dal Vietnam, attraverso quattro province della Cina, va all’India orientale e fino all’Afghanistan, abitata da circa cento milioni di persone che formano un eccezionale mosaico di minoranze etniche. Nelle lingue birmano-tibetane, la parola evoca i “popoli” ritiratisi in luoghi “remoti”, aspri e scoscesi. Prima di essere un rompicapo per gli studiosi, questo insieme di territori e i suoi abitanti sono stati, almeno fino alla prima metà del secolo scorso, un fronte di resistenza tenace per chiunque ambisse governarli, si trattasse degli stati indù, dello stato Han cinese o degli imperi coloniali francese e britannico.

 

Nelle storie nazionali e negli studi accademici che hanno privilegiato il punto di vista del progetto di costruzione degli stati, questi popoli erano visti come tribù arcaiche non ancora incorporate nella civiltà delle pianure. In verità, la loro forma di esistenza non ha nulla di residuale, ma si sviluppa in antagonismo e in simbiosi con gli stati dai quali essi hanno a un certo punto deciso di secedere. La civiltà delle pianure voleva dire per loro, infatti, non amministrazione benevolente ma lavoro forzato, tasse, coscrizione obbligatoria e la perdita della propria identità culturale. Nell’indomito altopiano di Zomia si sono allora sedimentati nei secoli, come tanti detriti “della creazione coercitiva degli stati”, questi gruppi di fuggiaschi dalla civiltà che avanzava. 

 

La pastorizia, la raccolta, la coltivazione itinerante, il contrabbando, il relativo egualitarismo sociale, la scelta di abitare dispersi su grandi distanze, la religiosità eterodossa e tendente al millenarismo, la cultura prevalentemente orale: James C. Scott, che ha raccolto il legato dell’antropologo Pierre Clastres, riconosce negli aspetti della vita di questi popoli strategie per sottrarsi al controllo dei poteri vicini, e per evitare che qualcosa di simile allo stato sorgesse tra di loro. In uno dei capitoli più suggestivi ipotizza come anche la perdita della scrittura sia parte di questa secessione: nella scrittura c’è infatti il germe della legge, della gerarchia e della burocrazia, e le leggende di questi popoli – come, presso gli akha, quella che racconta di un antico re ucciso perché voleva fare un censimento – parlano delle ambiguità e dei pericoli insiti in essa. Nelle ricorrenti lotte tra periferia e centro spesso gli insorti bruciavano i registri degli uffici pubblici, e non si contavano le azioni di sabotaggio delle missioni cartografiche occidentali. 

  

Dal punto di vista eccentrico scelto, Scott in realtà fa riflessioni illuminanti sulla natura dello stato come disegno di potere, sulle sue fantasie di controllo, sulla sua pretesa di uniformità nei sudditi, sul rapporto dello stato-nazione con la memoria storica. Oggi che non c’è quasi più territorio fuori dalla sovranità statale, è facile dimenticare che per gran parte della storia invece vivere dentro o fuori lo stato era una scelta. 

 

James C. Scott
L’arte di non essere governati
Einaudi, 480 pp., 34 euro

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