Il più grande criminale di Roma è stato amico mio

Giuseppe Fantasia

La recensione del libro di Aurelio Picca, Bompiani, 256 pp., 17 euro

Il dolore è banale, ma il male attrae e lo fa a tal punto che leggere il racconto della vita di Laudovino De Sanctis – feroce criminale romano autore di sette omicidi, quattro sequestri di persona, undici condanne definitive, due fughe dal carcere – ipnotizza e conquista. Il merito va ad Aurelio Picca, che ogni volta dà vita a romanzi che partono da un “io” che non per forza deve diventare un “noi”, da un malessere che vuole essere condiviso più che compreso e poco importa se – come precisa lui – utilizza parole e frasi difettose. L’importante è mostrare quell’imperfezione che affascina proprio in quanto tale, capace di restituire, in questa storia più che mai, il gusto di un’epoca. Amante delle trasformazioni, intellettuale camaleontico come le passioni, l’umore e le emozioni, Picca diventa Alfredo Braschi che negli anni Sessanta era un ragazzino quando vide per la prima volta De Sanctis, l’uomo spietato che quelli della banda della Magliana chiamavano “Lallo lo Zoppo” o “la bestia”. Si conoscono in un ristorante dei Castelli Romani con le rispettive fidanzate e fu subito attrazione. Un ragazzino colpito da un trentottenne dagli occhi azzurri che spiccavano su un volto abitato da un ghigno più che da un sorriso. “Era una belva feroce che aveva sempre ucciso a faccia scoperta”, dirà, uno che alla droga “preferiva l’oro e le Ferrari”. Una Daytona Viola, addirittura, gliela regalerà per celebrare una relazione filiale più che un’amicizia che Picca ci racconta alternando un passato che arriva a un presente in cui il suo alter ego vive in una pensione sul lago di Albano (“è la morte eppure ci vivo”) sognando di essere a Nemi (“il lago della dea Diana”). Ha sempre con sé una pistola con cui i suoi parenti macellai ammazzavano cavalli e tori e in testa ha il motivo della Ninna Nanna che cantava a sua figlia Monique, lei che aveva lo stesso nome di quella di De Sanctis che subì una violenza atroce che va vendicata. Guardandosi allo specchio, Picca/Alfredo vede in realtà ritratto Lalletto (lo chiamava così), “un uomo come me estremo” ed è avvolto da malinconia e dispiacere, perché lui, però, a differenza sua, si era ribellato e “aveva disprezzato la morte uccidendo poveri innocenti”. In mezzo c’è un Grande raccordo anulare che porta in quei luoghi d’azione che l’autore conosce molto bene perché ci vive, da Velletri a Genzano, da Ciampino a Marino fino a Grottaferrata. C’è anche Roma che all’epoca “vibrava, sbandava e sparava”, una città misteriosa e padrona, una bella donna elegante e silenziosa che a differenza di quanto si potesse pensare, “faceva l’amore raramente”. L’amore, quando è vero, fa vedere solo la gioia e assieme alla (beata) giovinezza fa da trait d’union in queste vicende condite con atti processuali, tracce di verbali, sparatorie, sequestri, sangue, luci e ombre, caso e caos, ma anche da tanto silenzio che, a ben vedere, è più grande di ogni cosa. Imperdibile. 

 

Il più grande criminale di Roma è stato amico mio

Aurelio Picca 

Bompiani, 256 pp., 17 euro

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