Come in una tomba

Francesca Pellas

La recensione del libro di James Purdy (Racconti, 128 pp., 13 euro)

Come in una tomba di James Purdy (traduzione di Maria Pia Tosti Croce) non è un romanzo facile: non lo è, in generale, avvicinarsi alla produzione molto particolare di questo grandissimo dimenticato della letteratura americana, amato da Gore Vidal, Susan Sontag e Jonathan Franzen. Vale però la pena tentare, e sarà un’esperienza preziosa, una porta su un mondo fatto di simboli, bellezza disgraziata e dolore.

 

La storia, qui, è quella di Garnet Montrose, che torna dalla Seconda guerra mondiale sfigurato a tal punto da indurre in chi lo guarda “conati di vomito”. Garnet arriva sulla costa della Virginia dopo nove anni d’assenza, ed è solo al mondo: tutte le persone che conosceva se ne sono andate o sono morte. Di giorno vive assordato dai molti uccelli che cantano tra gli alberi, di notte raggiunge a piedi una sala da ballo abbandonata e danza da solo, al buio, nell’unico posto che gli ricorda di essere stato vivo e felice. Per un anno cerca uno “schiavo” che lo assista: ai colloqui nessuno lo guarda in faccia; alla fine riesce a trovarne due: Quintus, per massaggiargli i piedi e leggere a voce alta, e un fuggitivo di nome Daventry, per consegnare le lettere d’amore scritte alla vedova che vive in fondo alla strada. Da qui si oltrepassa una soglia e si entra in una diversa narrazione, sincopata e in riverbero, quasi come un sogno. La vedova si innamora di Daventry, che a sua volta si dichiara innamorato di Garnet e minaccia di ucciderlo, forse sconvolto dai suoi stessi sentimenti, per poi danzare con lui di notte, disperato, nella sala da ballo deserta affacciata sull’oceano. Anche Garnet si scopre innamorato di lui, ma lascia che sposi la vedova. “Mi aveva insegnato ad ascoltare di nuovo i venti e l’oceano. (…) Non erano venti normali. Soffiavano come spiriti alla ricerca di qualcosa”. Segue un uragano. Forse il dolore di tutti che si fa tempesta e capovolge le cose.

 

In un bel profile di Jon Michaud sul New Yorker, James Purdy è stato paragonato a un Wes Anderson della letteratura, “anche se meno superficiale”. Splendido anche il ritratto che ne fa Livia Manera Sambuy in quel libro assai prezioso che è Non scrivere di me, uscito per Feltrinelli nel 2015. Purdy, nato in Ohio nel 1914, iniziò a scrivere molto giovane ma per anni non riuscì a trovare un editore in America proprio per il contenuto delle sue opere, ritenuto scandaloso; a trovare lui fu infine un’editrice in Inghilterra, Edith Sitwell, critica e poeta simbolista di antica e nobile famiglia. In Italia fu pubblicato a partire dagli anni 60 dall’Einaudi, anche se, come dice in un un esilarante passaggio di un’intervista del ’91 a Daniele Brolli: “Sì. Ero in contatto con Italo Calvino, ma la nostra corrispondenza da quando Einaudi ha smesso di pubblicarmi si è diradata. E da qualche anno non mi risponde più nessuno” (risposta di Brolli: “Be’, Calvino è morto”). A Racconti edizioni, piccola perla dell’editoria indipendente che sta mettendo insieme un catalogo a cui ci si dovrebbe inchinare, va il merito di averlo portato in Italia (oltre a Come in una tomba hanno pubblicato altri due suoi libri: Non chiamarmi col mio nome e A casa quando è buio).

 

James Purdy
Come in una tomba
Racconti, 128 pp., 13 euro

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