I valori che contano

Simonetta Sciandivasci

Recensione del libro di Diego De Silva edito da Einaudi (320 pp., 18,50 euro)

Vincenzo Malinconico è un culto ma non un oppio.

A lui ricorriamo per farci dire i pensieri peggiori, quelli che non osiamo neanche pensare, inibiti e terrorizzati come siamo dalla franchezza, illusi che l’iniquità sia fattore culturale correggibile. Di Malinconico non si può fare a meno, però va preso a piccole dosi, come tutti gli irresistibili che sanno dire le cose come stanno, e bene.

Chissà se Diego De Silva, quando ha creato Malinconico, immaginava che un avvocato di provincia, soft boiled, povero, iellato, sardonico e troppo pigro per essere anche depresso, sarebbe diventato il santino che è, il feticcio, l’adorabile filosofo per niente filosofico al quale l’insuccesso non ha dato alla testa, anzi. Sono passati tredici anni e molti libri dal debutto di “Non avevo capito niente”, e Malinconico è sempre lo stesso, anche se nel suo studio sono spariti i mobili Ikea e ci sono più di cento metri quadrati calpestabili, ché tanto lui sempre nei trenta di prima continua a muoversi. E’ tornato con un nuovo atto di questa commedia senza fine sull’avvocatura, il tampone diagnostico più preciso del paese, e sugli avvocati, indispensabili farabutti che ci salvano dove un commercialista non arriva, e che per fare giustizia la raggirano. Calamandrei lo raccontò splendidamente: “Disse un avvocato: ‘Le attenuanti generiche, Signor presidente, sono il sorriso del codice penale’. Il giudice sorrise. Le attenuanti furono concesse”.

 

Malinconico però esercita più il fiuto che la furbizia, visto che di far carriera non gli importa, ed è nauseato da com’è ridotta la professione: “Si sottintende che gli avvocati, essendo una classe mediamente all’anticamera dell’indigenza, debbano star lì a prender lezioni dal magistrato di turno che li tratta da semianalfabeti giuridici”. A Malinconico basta sopravvivere, parlare con sua figlia, insultarle il marito, ottenere dalla donna che frequenta, alla quale ha curato il divorzio, che si smetta di vedersi in albergo, non avere ragione (“Quando ho la meglio in una discussione finisce che mi pento e chiedo pure scusa”). Poi però gli capita in casa una puttana giovane e bella, e che è la figlia del sindaco, vittima d’estorsione. Malinconico prende il caso, e per metà del libro De Silva racconta la relazione tra un padre corrotto e una figlia che lo compatisce senza mai subirlo, racconta la prostituzione, il revenge porn, la dialettica tra maschi meridionali che più che essere dominati dagli animali che si portano dentro, sono tenuti al guinzaglio dalla paura di restare soli. A un certo punto, Malinconico scopre di avere un tumore e lo affronta come se fosse in tribunale, dove “ogni giorno è uguale a un altro”. Sa che non c’è da dichiararsi vittime innocenti, perché la malattia non è un licenziamento ingiustificato e non c’è una ragione per cui un cancro colpisca te e non un altro, non c’è da fare i guerrieri. C’è da rendersi conto che i valori che contano sono pochi, e siccome si scoprono soltanto quando si rischia di morire, è tanto meglio vivere di valori che non contano niente. Che liberazione.

 

I valori che contano
Diego De Silva
Einaudi, 320 pp., 18,50 euro

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