Un punto di approdo

Edoardo Rialti

Recensione del libro di Hisham Matar edito da Einaudi (128 pp., 16 euro)

Ogni cultura, periodo storico, opera d’arte è un paese straniero, come scrisse lord David Cecil. Per incontrarlo dobbiamo spingerci ai nostri estremi confini, esporci allo sconcerto e al disagio, al tempo stesso affascinati e imbarazzati come quando si apprende una lingua. L’opposto del turismo predatorio, che livella e banalizza, è la disponibilità a farsi cambiare da ciò che incontriamo, a lasciargli qualcosa di noi. Di queste memorie italiane del Premio Pulitzer libico Hisham Matar, che racconta la passione d’una vita per la prodigiosa fioritura dalla pittura senese medievale, si vorrebbe citare tutto e niente, giacché si tratta appunto d’un simile costante e discreto esercizio d’attenzione. Come ogni grande amore, c’è qualcosa di davvero “strano che uno come me, proveniente da una tradizione diversa, fosse preso da quei quadri al punto di lasciare moglie e casa per non fare quasi null’altro che guardarli, in una città in cui non conosceva nessuno”. Eppure, come già consigliava Marco Aurelio, bisogna amare ciò cui si ritorna, e ci sono dimensioni dello spirito che costituiscono già una nostra casa interiore. E proprio contemplarle, muoversi in esse, domandarsi cosa sarebbe nascere o morire alla loro ombra, ci svela qualcosa di noi e degli altri che non avremmo mai saputo fissare ed esprimere così intensamente, ci riconsegna le nostre esperienze, cosa si diffonde nell’animo quando la persona amata ci tiene la testa sulle gambe in un parco, quanto affiora nella solitudine affacciata su passato e futuro, il tempo e lo spazio che occupiamo col corpo e i pensieri. “Ricordo di aver pensato che una delle principali funzioni delle città è proprio questa: essere lì in parte per renderci più intelligenti e più intelligibili l’uno all’altro”. Anche un Davide che sfoggia la testa mozzata di Golia diventa così un modo per comprende meglio gli sgozzamenti dell’Isis, ma anche la radice mimetica di ogni competizione: “Mi chiedo se, oltre agli ovvi motivi di una decapitazione, non ci sia, sotto tutto ciò, un desiderio più profondo: oltre a essere un atto definitivo di violazione e castigo, nella decapitazione si esprime anche, letteralmente, l’intimo impulso a prendere il posto dell’avversario; sollevarne in alto la testa e occupare lo spazio dove un tempo c’era il suo corpo, calpestare il suolo che i suoi piedi calpestavano”. Al pari della performance di Marina Abramovićc, l’artista è presente anche negli sguardi obliqui delle Madonne di Duccio o Lorenzetti, “s’intuisce che si chiedevano quanto un quadro possa contare sulle emozioni di chi guarda; quanto un’esperienza umana condivisa possa mutare il contratto fra artista e spettatore, e fra artista e soggetto; e quali possibilità creative possa offrire tale inedita collaborazione. Ecco perché quei dipinti mi sembravano allora, malgrado l’iniziale sconcerto, e tuttora mi sembrano, l’espressione di un sentimento di speranza. C’è in essi la convinzione che quanto ci accomuna sia più di quanto ci separa”. 

 

Un punto di approdo
Hisham Matar
Einaudi, 128 pp., 16 euro

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