La scrittura o la vita

Alessandro Litta Modignani

La recensione del libro di Jorge Semprún, Guanda, 293 pp., 19 euro

Non possono capire, capire veramente, questi tre ufficiali. Dovrei raccontar loro il fumo: talvolta denso e d’un nero di fuliggine cangiante nel cielo. Oppure leggero e grigio, quasi vaporoso, che avanza, sospinto dal vento, come un presagio o un saluto sui vivi assembrati”. Pubblicato per la prima volta nel 1994, La scrittura o la vita racconta lo straziante dramma interiore di un reduce da Buchenwald, quando capisce che, se dimenticare è impossibile, scrivere gli sarebbe fatale. “Niente, di primo acchito, svelava dove avevo passato gli ultimi anni. Io stesso tacqui a lungo su questo argomento. Il mio non era un silenzio affettato, né colpevole, né tantomeno pusillanime. Ma un silenzio di sopravvivenza”.

Nel dicembre del ’45, il futuro scrittore si chiude in un’introversione letteraria che durerà quindici anni. “Ad Ascona, quindi, sotto il sole invernale, ho deciso di scegliere il silenzio frusciante della vita contro il linguaggio mortale della scrittura. Ne ho fatto una scelta radicale, era l’unico modo di procedere. Ho scelto l’oblio, ho messo in atto, senza troppa indulgenza nei confronti della mia identità, fondata essenzialmente sull’orrore – e forse sul coraggio – dell’esperienza del campo, tutti gli stratagemmi, la strategia, crudelmente sistematica, dell’amnesia volontaria. Sono diventato un altro, per poter rimanere me stesso”.

Davvero una grande vita, quella di Jorge Semprún (1923-2011) spagnolo di nascita e francese d’adozione; una biografia che condensa le grandi tragedie del Secolo breve, fino alla vittoria della democrazia. L’autore nasce in una famiglia ricca e colta, suo padre è ambasciatore della giovane Repubblica spagnola: con la guerra civile, i Semprún devono riparare in Francia. Qui il ragazzo cresce, studia, frequenta l’élite culturale. Con l’occupazione tedesca entra a far parte della resistenza, viene catturato, torturato, deportato a Buchenwald nel gennaio del ’43, non ancora ventenne. Sopravvissuto, sarà per dieci anni a Madrid a capo del Partito comunista spagnolo clandestino, fino all’espulsione da parte di Santiago Carrillo in persona. “Se avessi capito fin da subito il comportamento di Nikolaj, del blocco 56, quel mistero dell’anima russa, mi sarei risparmiato una lunga deviazione, non priva di oasi di coraggio e di fratellanza, nel deserto del comunismo”. Dopo quindici anni di silenzio, Semprún trova la forza di scrivere, di raccontare ciò che non ha mai cessato di tormentarlo. Il grande viaggio è del ’63, cui seguono altre opere di carattere autobiografico. Dal 1988 al 1991 Semprún è ministro della Cultura nel governo di Felipe González, mentre cade il Muro di Berlino. Nel 1992 torna a Buchenwald, due anni dopo dà alle stampe questo suo doloroso capolavoro, in cui ripercorre le tappe di una vita straordinaria e riflette sui suicidi di Primo Levi e Paul Celan.

“L’essenziale? Sì, credo di saperlo. Credo di cominciare a saperlo. L’essenziale è riuscire ad andare oltre l’evidenza dell’orrore, per tentare di raggiungere la radice del Male radicale, das radikal Boese”.

 

LA SCRITTURA O LA VITA

Jorge Semprún

Guanda, 293 pp., 19 euro

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