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Simonetta Sciandivasci

Recensione del libro di Marco Ubertini edito da Sperling & Kupfer (256 pp., 17,90 euro)

Chi è cresciuto negli anni Novanta lo sa: ci sprecavamo moltissimo. Avevamo una specie di vuoto, un ribellismo fatto di un fuoco senza vampe, e che era una candela rassegnata, decisa a consumarsi, sciogliersi, finire. Eravamo soli, forse i primi ragazzi realmente soli della storia contemporanea occidentale, ed eravamo soprattutto “abbandonati al presente”, che era nostro ma immutabile. Così ci descrive Marco Ubertini raccontando la sua età forte in 33 episodi, perché 33 sono gli anni che fa. E’ un millennial, è stato ragazzino a Roma, nei posti dove sedimentava il rap dei Corveleno e della “scena romana” che oggi ogni tanto spunta fuori, contaminata ed evoluta, a volte irriconoscibile, nella trap o nel cantautorato, nell’hip pop un po’ indie come quello di Coez (che di questo libro scrive la prefazione). Il primo rap esistenzialista d’Italia, il primo rap che entrava in casa, in case dove lo sconquasso era intimo e non economico e l’amore era distratto, e le famiglie erano implose. In questa raccolta di episodi veri della sua adolescenza, 33 quanti sono i suoi anni, Ubertini, che è alto due metri e traffica con il basket almeno quanto traffica con il rap e l’indie e Roma nord, racconta quell’età forte in cui siamo stati così soli e deboli e la racconta dalla sua parte, quella di un ragazzino che a sedici anni andò via di casa per smettere di essere trasparente, cominciò a drogarsi molto, diventò tossicodipendente, e trascorse il suo tempo migliore a fare per farsi o smettere (riuscendoci, alla fine, e infatti questo libro è anche la storia di una rinascita, del suo ordine) e però pure a cercare di lasciare traccia facendo il writer (solo tag e throw up, scritte, e niente graffiti che “per noi erano roba da froci”), di riprendersi “i margini delle metropoli” andando ai rave.

Nel suo L’età forte, Simone De Beauvoir scrive a un certo punto: “Mi abbandonavo così interamente ai miei desideri che non mi restava niente di me da sprecare in vani desideri”. La giovinezza come dovrebbe essere è così, assorbente e assoluta, fatta di cose che sembrano, e forse sono, tutte importanti e imperdibili. Negli anni Novanta era l’opposto, e non ci siamo ancora fermati a rifletterci bene, e siccome questo libro lo fa è molto importante leggerlo e discuterlo e tirarlo fuori quanto più si può.

Ci si drogava per amore e l’eroina, che sta tornando per via di un’epidemia di solitudine che da allora ha contagiato tutto, serviva a dare “un senso di appartenenza, di unione” e il motivo per riempire i muri della città con il proprio nome era molto preciso: se gli adulti ci ignorano, noi li perseguitiamo con la nostra firma.

“Venivamo da un deserto arido, eravamo bambini indifesi e mai difesi da chi avrebbe dovuto farlo”. Però ne siamo venuti fuori e Ubertini racconta come e a quale costo. Così ci ricorderemo quanto stavamo male, e quanto avrebbe potuto andarci peggio, e che abbiamo iniziato a crescere annegando, come il bambino che segue zio e padre nella prima scena di questo libro che sembra un disco e invece è una lettera.

 

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Marco Ubertini
Sperling & Kupfer, 256 pp., 17,90 euro

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